Ora, un po’ di biografia di cronologia di documenti.
[Mattia Preti] nacque nel 1613, morì nel 1699.
Roberto Longhi, Mattia Preti, 1913
Tra i propositi espliciti della Critica della ragione cinica di Peter Sloterdijk c’è quello di definire ex novo modi e strumenti della critica dell’ideologia.
Nella sua forma usuale, afferma Peter Sloterdijk, la critica dell’ideologia improntata alla tradizione illuminista e marxista versa in stato di agonia. La razionalità formale non ha più alcuna efficacia contro menzogna o pregiudizio. Questi sono diventati “falsa coscienza illuminata”, scrive il filosofo, “conformismo autocosciente”. Cioè “coscienza” che ammette pur sempre di essere “falsa”, ma non se ne fa problema. Una spessa corazza rende immuni alla contrizione. Menzogna, Errore, Ideologia: alle tre figure tradizionali della Falsa Coscienza, questa la tesi di Sloterdijk, si aggiunge oggi lo psicotico cinismo neoliberista (diverso, ai suoi occhi, dal salutare kynismus ellenistico).
In che modo lo studio delle immagini può contribuire al proposito di Sloterdijk? Cioè rinnovare qualcosa come una “critica dell’ideologia”? Non è facile rispondere, ma un primo punto sembra indiscutibile. Oltre a essere “belle”, “sublimi”, “interessanti” o “repulsive”, le immagini dipinte o scolpite o altro sono pur sempre compromesse con questa o quella versione del mondo, non importa se su piani intenzionali o preterintenzionali.
C’è un passaggio, nelle Proposte per una critica d’arte di Roberto Longhi, apparse nel 1950 sulla rivista Paragone, in cui la storia dell’arte soccorre, se non la critica dell’ideologia, certo la critica della cultura; e rinnova profondamente le tecniche dello sguardo. Ci aiuta cioè a gettare ponti tra l’universo estetico delle “forme” e gli universi storici del “dominio”. È il passaggio in cui Longhi definisce per così dire ontologicamente lo status dell’opera d’arte, il suo tratto costitutivamente eretico, irriducibile a programmi e discipline che non siano intrinseche. “L’opera d’arte è una liberazione”, afferma Longhi, “perché è una lacerazione di tessuti propri e alieni. Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento”.
“Lacerazione”: è un termine che rinvia allo sfarfallamento dell’insetto ormai adulto dal bozzolo in cui ha trascorso lo stadio di pupa o crisalide; o al rifiuto della quinta finzionale, del sipario teatrale. Certo è che solo attraverso questa lacerazione, procuratale dall’interprete, l’immagine sembra nascere a se stessa e rivelarsi secondo un “senso di apertura” da intendere non solo in senso estetico o storico-artistico, ma tout court storico-cosmologico, cioè di “rapporto […] tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica” ecc.
Se intesa a partire dal processo creativo soggiacente, e non dalle “forme” manifeste, è l’opera stessa, per Longhi, che mette a nudo mondi storici non ancora depotenziati dal luogo comune. Evidente che ai suoi occhi la dimensione estetica trascende già sempre la semplice “comunicazione”: l’opera si rivela a partire dalle sue pieghe tecnico-stilistiche più riposte, dove rimane tacita e non declama a gran voce “iconografie” o programmi. Occorre imparare a auscultarla, a riconoscere per così dire come linguaggio il brusio tra le parole. È quanto raramente riescono a fare oggi teorici della cultura prestati allo studio delle “forme”, come Boris Groys.
“Le dottrine”, afferma Longhi, “procedono in assenza delle opere, o tutt’al più sbirciandole di lontano, la critica soltanto in presenza”. L’autore delle Proposte diffida dei “troppi riflessi pratici” che si legano al discorso artistico contemporaneo e gli impongono “deviazioni in forma di oratoria pubblicistica”, “profezie premature” o “eloquenza di cattedra universitaria”. La sua posizione di intransigente ecfrastico si inserisce nella tradizione otto-novecentesca della più illustre Zivilisationskritik, da Nietzsche a Burkhardt a Heidegger a George Steiner. E prefigura i rifiuti “deculturali” di Susan Sontag in Against Interpretation o di DeLillo in Mao II – per tornare in Italia: di Carla Lonzi, che è allieva di Longhi.
Le “descrizioni” hanno una parte così importante nella critica di Longhi perché esse ci spingono a sostare presso un’opera d’arte in atteggiamento sperimentale, desto e interrogativo; e a considerarla ex novo e in concreto, alla luce di quanto suggeriscono le “facoltà più immediate e sensibili”; senza riferimento alla letteratura critica preesistente, alle dichiarazioni ufficiali e (oggi) ai comunicati stampa. La “descrizione” longhiana, mirata a cogliere il processo e non la semplice “forma” manifesta, restituisce l’ebbrezza della scoperta. Presuppone abilità commiste in una combinazione rara e secondo proporzioni inconsuete. L’equazione del successo interpretativo, dei “miracoli di aderenza”? Verosimilmente: talento + filologia + filologia.
In conclusione. C’è in ogni vera opera d’arte, per Longhi, qualcosa che rifiuta l’autoinibizione e sfida la malinconica saggezza del filosofo della storia o dell’ideologo. Un elemento gaio e libertario, a suo modo “religioso”, potenzialmente antisociale (o socievole sul presupposto di una diversa società). Acceso dalle “equivalenze verbali” del critico-artiste, scienziato ed esteta, il nucleo di irragionevole ivresse depositato nel cuore di ogni opera d’arte brilla al modo di una carica. “Liberare” appunto: in senso kynico e non cinico.
Michele Dantini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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