Donne e pubblicità, tra corpo e cervello. Quattro casi recenti
Aziende che promuovono la propria immagine puntando sull’impegno sociale e culturale, contro pregiudizi e cliché; altre che restano legate a vecchi schemi. E il corpo delle donne è al centro. Ecco quattro casi recentissimi, dall’Italia all’Inghilterra
EDISON, UN PRIMATO IN ROSA
La musa dell’operazione è la milanese Maria Artini, tra le prime stelle a illuminare l’altra metà del firmamento delle scienze moderne. Nata nel 1894, iscrittasi nel 1912 al Politecnico di Milano, si laureò nel 1919 in elettrotecnica con 90/100. E non si fermò lì. La Artini cominciò subito a collaborare con aziende del settore elettrico e nel 1937 fu assunta dal colosso Edison, conquistando presto un ruolo dirigenziale. Nulla di scontato, per l’epoca. Anzi. Le donne che studiavano, facevano carriera e sfondavano nel settore scientifico-tecnologico erano perle rare.
Ma quanto è cambiata oggi la situazione? Se l’è chiesto proprio Edison, con una bella campagna di comunicazione tutta al femminile, lanciata a giugno 2016. Il progetto si chiama “Pretty Curious” e dal prossimo autunno metterà in campo una serie di iniziative di taglio didattico-culturale, destinate alle studentesse degli istituti superiori e del licei scientifici: incontri, progetti, dibattiti.
SE DA GRANDE VUOLE FARE LA SCIENZIATA. UNO SPOT INTELLIGENTE
Teaser della campagna è un delizioso video, affidato ai volti di bambine che sognano un futuro tra laboratori di chimica, ingegneria, biologia, astronomia o informatica. Bambine che non s’immaginano maestre, parrucchiere, attrici o assistenti sociali, ma che nel cuore hanno numeri, provette, circuiti, robot, oceani, fossili, pianeti. A descriverle una serie di aggettivi: essere curiose, determinate, creative, concentrate. E il tentativo è quello di offrire alle più piccole un modello virtuoso, in cui passione e intelligenza, volontà e cervello, fanno la differenza.
In chiusura, le statistiche che restituiscono la verità: in Italia, su sette persone che lavorano nel settore STEM (Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) solo una è donna. Male anche per l’ICT (Informazione, comunicazione e tecnologia), dove le donne impiegate sono l’11% del totale (in Europa si arriva al 15%, fonti Cepis-Aica). Ruoli dirigenziali? Assolutamente rari. E il problema è già all’origine, dal momento che le iscritte ai corsi di laurea d’ambito scientifico sono ancora assai inferiori rispetto agli iscritti. Un fenomeno di autoesclusione, influenzato anche da pregiudizi stratificati: per secoli si è ritenuto che le donne fossero più portate per discipline umanistiche ed educative.
Ma di pregiudizio reale si parla, se ci spostiamo nella fase post studi. Nonostante arrivino al traguardo della laurea il 2-3% in più di universitarie rispetto ai colleghi maschi (fonte Eurostat), qualcosa si inceppa sul piano delle assunzioni e della crescita professionale. A fare carriera sono, per la stragrande maggioranza, gli uomini.
E ancora una volta Edison marca una differenza. Se la percentuale delle impiegate in azienda è cresciuta progressivamente, negli ultimi 10 anni le donne con ruoli di responsabilità sono passate dal 25 al 35%. Fino ad arrivare all’attuale fiore all’occhiello: oggi Edison è la più grande società Italiana con un Cda a maggioranza femminile. Chapeau.
MOCIO VILEDA. TRA SESSISMO E MAMMISMO
Ma se non sono poche le aziende italiane che scelgono la via del marketing engagé, promuovendosi attraverso cultura e impegno sociale, altre perseverano nella comunicazione vecchio stile. A volte limitandosi a roba scontata, ammuffita, infarcita di cliché anni Cinquanta.
Poco dopo che in rete, sui siti di alcune riviste femminili e in 973 sale cinematografiche nazionali, approdava lo spot Edison, in Tv arrivava la nuova pubblicità Vileda. Protagonista il buon vecchio Mocio, strumento cult in fatto di pulizie domestiche, reclamizzato da un ennesima scenetta familiare. Tanto banale quanto irreale. Una mamma (non sia mai che tocchi a un papà!) si dà da fare col suo avanguardistico SuperMocio, raccontando del figlio adolescente, amante del rock. Il quale entra in casa, munito di regolare outfit chiodo-jeans-sneaker, e senza nemmeno salutare passa sul pavimento lindo con le scarpe zozze.
Regolare anche la scia di impronte color fango. La madre non lo richiama, non gli mette in mano l’attrezzo intimandogli di pulire, ma si fa complice dell’adorato pargolo cafone: col Mocio imbracciato come una chitarra, anche lavare per terra è “rock”. Lui sporca e lei strofina, sottomessa e felice. Dietro l’immagine edulcorata, il mix di mammismo e maschilismo trapela. Irritante. E in rete sono tanti gli utenti infastiditi.
Il vizietto delle pubblicità sessiste si sposa, ancora una volta, con l’assenza di creatività, intuito, freschezza, genialità, in cui certe aziende inciampano, inchiodandosi alle quattro formule acquisite, a misura di utente medio. Quando il populismo danneggia pure il marketing. A curare la campagna Tv europea del SuperMocio è stavolta la francese Herezie, agenzia prestigiosa, che in questo caso non ha brillato. E dire che per il 2016 l’investimento di Vileda per la comunicazione si aggira intorno ai 6 milioni di euro, con un incremento del 40% rispetto al 2015. Meno budget ma più incisività in passato, ad esempio con lo spot “I gatti leccano di tutto!”, firmato nel 2013 da Mosaicoon. Un prodotto originale, divertente, fuori dal cliché “casalinga bon ton”, con tutte le caratteristiche per diventare virale: furono più di 200.000 le visualizzazioni in meno di 3 giorni e oltre 15.000 le interazioni sui social. È il caso di dirlo: lo stereotipo non premia più.
LYCIA E LA RETORICA SULLA DIFFERENZA DI GENERE
Accoglienza negativa, in rete, anche per una recente pubblicità di Lycia, marchio storico nel settore igiene e cosmesi. La folla ha puntato il dito contro la campagna lanciata su Facebook a giugno, incentrata sugli stereotipi di genere. Smalti, trucchi e bigodini per lei; trapani, seghe e martelli per lui. Multitasking lei, fra aspirapolvere, pentole, libri, pc e bebè; monocanale lui, che non va oltre l’ufficio. E ancora intuitivo lui, che se si perde decifra una cartina; pigra, sbrigativa (e forse tonta?) lei, che interpella un passante.
I commentatori insorgono indignati (giustamente) e alla fine l’azienda si scusa: “Non era nostra intenzione offendere nessuno, anzi volevamo ottenere l’effetto opposto: fare ironia con leggerezza sui luoghi comuni e gli stereotipi di genere, proprio per esorcizzarli”. In effetti il format è talmente estremo da far pensare più a un gioco ironico sui pregiudizi, che non a un’apologia. Tentativo mal riuscito, evidentemente. Scuse apprezzabili.
LABURISTA, MUSULMANO, FEMMINISTA. IL SINDACO DI LONDRA E LE DONNE
Estate 2016, stesso periodo ma altre latitudini. Ci spostiamo a Londra, dove il neosindaco Sadiq Khan si è subito attivato sul fronte della lotta alle pubblicità sessiste. Un impegno già preso durante la sua fortunata corsa elettorale. A un mese dalla conquista della City Hall, Khan ha detto stop a quei manifesti sparsi tra fermate metro e fiancate dei bus, rei di spingere sul tasto del corpo femminile in chiave utopica, irrealistica, iper patinata e competitiva.
Sarà la Transport for London, su invito del sindaco, ad applicare un filtro più scrupoloso alle 12.000 pubblicità gestite ogni anno, bloccando quelle davvero disturbanti e mortificanti. I regolamenti della Advertising Standards Authority saranno tenuti come riferimento costante, mentre l’azienda dovrà istituire un “Advertising Steering Group”, composto dai suoi partner pubblicitari (Exterion Media e JCDecaux) e da un serie di stakeholder. L’obiettivo? Monitorare l’approccio di TfL al mondo della pubblicità e garantire il rispetto delle policy.
La prima ad essere incriminata è stata la già nota campagna del marchio Protein World. L’anno scorso l’azienda era finita sotto i riflettori per quella super modella scolpita ed abbronzata, infilata in un mini bikini giallo e stampata su migliaia di billboard. Slogan: “Il tuo corpo è pronto per la spiaggia?”. Una petizione su Change.org aveva raccolto 700mila firme di protesta, mentre quasi 400 segnalazioni erano giunte ad ASA.
Ed è subito querelle: non è forse normale che una pubblicità di prodotti nutritivi per lo sport mostri dei corpi tonici, perfetti, bellissimi? In teoria sì. Ma occorre valutare quanto possa essere esplosivo il mix tra immagine e messaggio, e quale meccanismo più o meno subliminale scatti nella massa. A tutela delle sensibilità più fragili.
L’idea che essere pronte per la spiaggia significhi aver raggiunto un traguardo di quel tipo, è sciocca ma soprattutto insidiosa. Per gli uomini e per le donne, certamente. Eppure è alle donne che questo tipo di stress psicologico viene solitamente imposto: è il corpo femminile, al 90%, ad essere raccontato sui media come oggetto scultoreo infinitamente perfettibile. Il risultato? Frustrazione, mortificazione, bassa autostima, fino all’insorgere di malattie sociali quali anoressia, bulimia, dipendenza da farmaci e integratori.
FEMMINISMO O ISLAMISMO?
Altro fattore nodale. Parliamo qui di comunicazione urbana, con un impatto visivo ampissimo. Non basta spegnere la tv o girare la pagina di un giornale, come ha saggiamente evidenziato la stessa TfL. Si tratta di cartelloni piazzati tra stazioni e mezzi pubblici. Inaggirabili. L’elemento dell’imposizione e dell’aggressione accomuna qualunque presenza pensata per lo spazio pubblico: che sia un’opera d’arte, un manifesto politico, una pubblicità commerciale. Il senso di responsabilità non può che aumentare, in proporzione.
E infine non è mancata, tra i social e la stampa, l’accusa per Khan di “fondamentalismo islamico”. Femminismo o sharia? Condanna per la nudità femminile o reale premura nei confronti delle donne? Conservatori e xenofobi hanno naturalmente cavalcato la prima ipotesi, identificando nel sindaco musulmano un nemico delle libertà occidentali. Peccato che il succo della questione fosse un altro: non moralismo, ma rispetto. A essere contestate, ha spiegato il Sindaco, sono quelle pubblicità che portano le donne “a vergognarsi dei loro corpi”.
E peccato che a banalizzare il termine “libertà” non si vada poi così lontano. Liberi di mostrare, esaltare, condividere, scoprire il corpo, senza tabù né repressioni. Sacrosanto. Ma non più liberi di gioirne, forse, se l’equilibrio tra realtà e immaginazione, concretezza e desiderio, va a farsi benedire. L’immagine di sé distorta, la riduzione del corpo a mero strumento sessuale o a feticcio estetico da plasmare, la sua idealizzazione spinta, condita da perfezionismo, colpa e autopunizione, sono effetti di una combinazione critica tra disagio psicologico, retaggi culturali duri a morire e istanze ciniche del mercato. Una pubblicità può cambiare qualcosa? No, nel singolo caso. Sì, se diventa specchio ed ennesimo tassello di un intero sistema culturale. Banditi estremismi e censure, ma farsi due domande e continuare a vigilare resta un fatto sano. A tutela, soprattutto, delle giovani generazioni.
Helga Marsala
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