IL GIÀ VISTO E LO SCONCERTO
Quando arrivi ad Auschwitz, non sai bene cosa ti aspetta. Da un lato, un po’ come quando si mette piede a New York per la prima volta, e sembra subito di esserci già stati, allo stesso modo, il campo di sterminio più tristemente famoso della storia “lo abbiamo già visto” centinaia di volte in fotografia, in televisione e al cinema.
D’altra parte, l’esperienza di esserci per davvero, fisicamente, è sconcertante: la misura dei passi, degli spazi, del terreno che calpesti; la lunghezza dei binari e del filo spinato, le porte, le pareti, le torri, ti si mettono davanti con una evidenza quasi inammissibile.
RACCONTARE AUSCHWITZ
Raccontare Auschwitz è dunque un’impresa tra l’impossibile e il paradossale, sia perché è davvero come cercare di “dire il nulla”, di misurare l’ipogeo di ogni forma di umanità, sia perché, all’opposto, l’eccesso stesso di informazioni ha finito per oscurare ogni possibile descrizione, rendendola inadeguata o perfino superflua.
Ma, proprio lì, la questione che rimane in sospeso, è appunto quella delle immagini – non “su” o “a proposito” di Auschwitz, ma proprio ad Auschwitz. Il luogo stesso del lager, cioè, solleva e porta a compiuta consapevolezza un problema che, più o meno inconsapevolmente, incontriamo ormai in ogni pratica quotidiana, che sia di vista, di svago, professionale o di semplice memoria: quello del cosiddetto “atto fotografico”. Che si entri in una chiesa, si visiti un cimitero, ci si perda in un suk o semplicemente si passeggi per strada; che si voglia fissare un viso o un look, celebrare un luogo o un momento della giornata, ricordare un evento memorabile o una futile sciocchezza dell’esistenza, il dilemma si erge implacabile: si può o non si può fare fotografie?
Ad Auschwitz, luogo di memoria per eccellenza e in tutte le accezioni possibili, non si trova la soluzione, ma un vero ribaltamento. Nessuno ti impedisce di fare fotografie, non ci sono quasi mai cartelli di divieto esplicito, ma sta a te, visitatore individuale, decidere cosa fare. O meglio: sul singolo, sulla sua sensibilità e sulla sua capacità di giudizio, riposa per intero la responsabilità di trasferire ciò che vede in un’immagine. La dimensione stessa del luogo impone così la sua norma: raccontare oppure profanare, tacere oppure spettacolarizzare, vietare oppure permettere, sono tutte alternative che prendono proprio qui, o meglio, riprendono, a partire da qui, il loro più autentico significato.
IL MUSEO DELL’OLOCAUSTO
Sarà per questo che la parte museale di Auschwitz I, costituita a Museo dell’Olocausto, assomiglia vagamente a un museo di arte contemporanea, ma a un museo in cui le spesso meschine, deboli e talvolta insensate esercitazioni estetiche degli artisti assumo una solennità del tutto imprevista, non solo per la verità storica ed esistenziale di cui sono impregnate, ma anche e soprattutto per il loro valore visivo, responsabilizzando immediatamente chi le guarda.
Ben più delle fotografie, dei disegni, dei grafici, dei modellini, sono gli accumuli di cose, cucchiai, protesi, occhiali, scarpe, capelli, abiti, valige, pettini, spazzole ad assumere un valore di assoluta testimonianza. Se Adorno aveva ragione nel sostenere che, dopo Auschwitz, tutta la cultura “è spazzatura”, si potrebbe per converso arrivare a pensare che la spazzatura qui abbia avuto la sorta di diventare la sola traccia di cultura. Ed è così che, per le bizzarre vie della contemporaneità, il cimitero di valige del lager riporta alla mente una delle opere più impressionanti di Fabio Mauri, quel Muro Occidentale o del Pianto che, disperata e fragile pila di valige anch’esso, vale da monito più di qualunque immagine.
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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