Firenze e il David nero. Un manifesto contro l’orrore
Firenze sempre più contemporanea. Si susseguono in città mostre e interventi pubblici di grandi artisti internazionali, molti dei quali con la regia di Sergio Risaliti. Nella tragica notte dell’attentato a Nizza, una copia del David dipinta di nero, distesa in piazza della Repubblica, ha suscitato polemiche e curiosità. L’autore? Proprio lui, Risaliti. Che ci racconta come, perché e con chi è nata questa operazione.
Curatore, saggista, storico dell’arte, già direttore delle Papesse a Siena, da tre anni direttore artistico della Settimana Michelangiolesca. Lui è Sergio Risaliti, fra i protagonisti della “rinascita contemporanea” di Firenze. E in questa intervista, spiegando origini e simbologia del so David nero, non risparmia critiche a Tomaso Montanari e rimarca una distanza rispetto all’approccio di Ai Weiwei.
Partiamo dal tema dell’autorialità. Noi, il David nero esposto in piazza Repubblica, a Firenze, sembrava non avere autore. Non è stato dichiarato. In realtà si tratta di un tuo progetto. Ma il telo fiorito che lo copriva è un lavoro dell’artista Massimo Barzagli. Possiamo parlare di un una collaborazione?
In effetti Noi è un lavoro concepito e realizzato a quattro mani. La collaborazione artistica con Massimo Barzagli è iniziata molti anni fa. Ricordo solo che ho curato una sua personale a Palazzo Strozzi nel 2002. L’opera è un lavoro di pittura e scultura. Un marmo dipinto di nero (una cancellatura) e un telo bianco dipinto con fiori (un’impronta). Gestendo cancellatura e impronta abbiamo organizzato un’opera-azione decisamente iconoclasta. Il lavoro di teoria riguardo ai procedimenti “iconoclasti” risale agli ultimi venticinque anni della nostra frequentazione.
Consideriamo che con la prima guerra in Iraq, Desert Storm, inizia il grande capovolgimento teorico che ha segnato la nostra generazione. Nuove iconografie s’impongono poi con l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle, l’esplosione dei Buddah Tahini ad opera degli studenti talebani, il Teatro Dubrowska e la strage al Bataclan. Tutta la nostra generazione è stata soggetta al confronto con questa cieca violenza iconoclasta. Davanti agli occhi abbiamo avuto il terrore, la morte, l’odio, la vendetta, l’idolatria e la retorica, la consunzione e il consumo, la disperazione e l’intolleranza. La cronaca e la storia dell’arte.
Quali simbologie si sono incrociate tra le due opere?
La grande tela plastificata si chiama Save Our Flowers e fa parte della Collezione del Museo Pecci. È stato esposto nel 2007 alla Stazione Leopolda, fa parte di un lavoro dedicato alle stragi e alle lotte di liberazione nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La statua di cinque metri in marmo statuario è stata realizzata grazie al contributo degli Studi d’Arte Cave Michelangelo e alla direzione tecnica di Luciano Massari. L’evento è stato organizzato da Mus.e., per la terza Settimana Michelangiolesca.
Le impronte di fiori indicizzano rinascita dopo morte, splendore dopo consunzione. Togliere il telo ha significato posare lo sguardo su un’opera che esprime cancellatura e caduta: caduta di un’icona monumentale e cancellatura di una simbologia politica che non prescindeva e non prescinde tuttora dall’uso della forza militare e della violenza riparatrice nella difesa della libertà, dei confini e dei privilegi democratici. Va letta riconsiderando la Colonna Vendôme abbattuta a Parigi. Le ragioni di quell’azione.
La cancellatura assume anche una prospettiva rovesciata. Mettere in luce quanto di oscurato e di oscuro prevale nell’idolatria di un monumento il cui originale non esiste dal 1504 e che si ammanta di purezza, biancore, bellezza idealizzata, valori neo-classici.
Nell’opera di Barzagli, invece, si riscoprono fioriture rinascimentali, da Luca della Robbia a Botticelli e Raffaello. Così come l’auto nera utilizzata per trasportare la salma di Cassius Clay-Muhammad Alì, che era tutta ricoperta di fiori. Oppure i giardini di Monet e i fiori di Twombly, o quelli gettati per strada in ricordo dei defunti. Fiori galleggianti a pelo d’acqua intorno a Lampedusa. Morte e rinascita, quaresima e parusia. La scelta di coprire la scultura con Save Our Flowers ha rappresentato per noi un’idea di rispetto, di protezione e di addio.
Tu sei un curatore, uno storico dell’arte, ma anche un poeta. Oggi ti riscopri un po’ artista?
Non ci vedo nulla di strano, nessuna anomalia. Ci sono artisti che si cimentano con la curatela di mostre, scrittori che vanno sul palcoscenico, cantanti poeti, critici pittori eccetera. Per compiere un passo del genere ci vuole comunque una complicità intellettuale che va oltre l’affermazione del proprio ego.
Tuttavia il David nero nasce da lontano. Si tratta di una mossa preparata da tempo e anticipata da altre azioni in cui mi sono cimentato con scultura e performance, installazione a azione urbana. Potrei definirlo situazionismo, ma sarebbe una citazione colta per spiegare una serie di azioni creative affinate nel corso degli anni a scopo maieutico. Non faccio politica, ma ho una visione personale della funzione dell’arte nella polis.
In origine però la statua non doveva essere un’opera d’arte, tanto meno un simbolo di denuncia sociale…
Il David nero si trovava già incubato nel blocco di marmo esposto lo scorso anno in piazza Repubblica durante la seconda Settimana Michelangiolesca. Successivamente è stato reso conforme alla statua scolpita da Michelangelo, riproducendone una ad una le fattezze in marmo. Doveva rappresentare uno degli eventi della nuova edizione del festival ed essere presentato in città nella stessa posizione in cui era stato lavorato nei laboratori degli Studi d’Arte Cave Michelangelo. Lo avremmo voluto distendere in orizzontale su delle basi di pietra in modo che il pubblico lo potesse ammirare e perfino toccare. Lo scopo era didattico, in linea con la filosofia della Michelangiolesca.
E poi? La cronaca recente ha suggerito nuovi sensi e nuove forme?
Poi è accaduto qualcosa che ha violentemente scardinato tutto questo programma di mediazione culturale, imponendone un altro ben più drammatico e urgente. Questo David dipinto di nero è nato dall’indignazione e dallo sgomento. È nero come la pelle dei nostri fratelli morti ammazzati nelle strade delle città americane, a Fermo e in altri luoghi del mondo. Un David nero, nuovo simbolo di libertà e di fratellanza, esposto contro l’odio razziale e ideologico. Un David nero, per ricordare le migliaia di morti annegati in mare, fuggiti dalla violenza e dalla miseria, in cerca di pace e di libertà. Il titolo, Noi, significa che siamo esseri singolari plurali (Jean-Luc Nancy), che siamo una sola comunità, la somma di innumerevoli differenze.
Ho inoltre deciso di coricarlo direttamente sul suolo, cancellando ogni idolatria del David eretto sull’arengario, simbolo di fierezza, di orgoglio, di vittoriosa violenza. Un modo per depotenziare gli aspetti ideologici che giustificano la virilità e il coraggio, la reazione muscolare e ogni forma di superomismo culturale e tecnologico. Abbiamo, in questo modo, cancellato ogni riferimento alla forza violenta insito nella storia e nell’iconografia della statua, dopo la sua collocazione cinquecentesca in piazza, che è di origine politica. Ripensando quindi a Michelangelo che già aveva inteso cancellare i simboli della violenza: eliminando la testa di Golia e la spada con la fionda, praticamente invisibile.
Infine i fatti di Nizza, che con un tempismo esatto, casuale e tragico, sono diventati nuovo riferimento.
Un’opera d’arte, un’azione teatrale, un manifesto intellettuale possono – anzi debbono – prefigurare quanto accade il giorno stesso o quello dopo. Scavano e intercettano l’universale nel particolare, l’archetipo sotto la superficie; sottopongono la cronaca a più profonde considerazioni antropologiche e spirituali.
La notte tra il 14 e il 15 luglio, quando la nuova statua dipinta di nero è stata adagiata in piazza, è accaduto l’inimmaginabile, prefigurato però dal nero. Après-coup. Decine di persone, adulti e bambini, sono stati travolti e uccisi da un folle omicida alla guida di un tir. Violenza su violenza, dolore su dolore, morte e disperazione. Il mattino seguente il David nero ha incorporato tutto il dolore del mondo. Si è trasformato in simbolo del lutto universale, un inno alla pace e alla fratellanza, contro l’odio e la vendetta. La tela dipinta che lo ha celato per qualche ora allo sguardo era come un sudario, una coperta di fiori. Segno di rinascita. Di amore che vince la morte.
In Rete sono state tantissime le critiche. L’hanno bollata come un’opera retorica, gratuita. Non senti questo rischio? Sul piano dei simboli (il colore nero, la posizione orizzontale, l’evocazione della sofferenza) era tutto troppo facile? O forse l’indignazione è legata alla profanazione di un simbolo cittadino forte?
Critiche fisiologiche, scontate. Più facile accettare esercizi di didattica sociologica previsti dal codice su cui si fonda il sistema dell’arte. Difficile confrontarsi con un’opera che contravviene e dissimula, che cancella ogni riferimento e svia dal senso comune, dall’immediata lettura della sua didascalia. Perfino il titolo, Noi, resta ambiguo, spiazzante. Mette in luce la retorica e il conformismo di tante reazioni umanitarie virtuali, il nostro egoismo sotterraneo, che sembra agire nel genoma occidentale ed esplodere in forme di cinismo intollerabile nell’era del capitalismo avanzato. Siamo noi e loro. Ma siamo sempre noi, tutti fratelli sullo stesso pianeta, figli di una stessa madre africana secondo i genetisti e di una sola forza cosmica secondo la scienza sacra.
L’arte contemporanea spesso si aggancia all’attualità sociale e politica. Quando, secondo te, si è autentici ed efficaci, e quando invece si inciampa nella furbata, nella speculazione del dolore, nel patinato e nel ruffiano?
Forse è giusto così. Nel vuoto della politica e nella disaffezione dalla politica, l’arte – accettando una discesa nella creatività comunicativa – può rinascere come Araba Fenice, farsi strumento di risveglio delle coscienze, può anche allertarci; dovrebbe distruggere miti, decostruire ideologie con tutto quel bagaglio retorico, iconografico, performativo che le immagini e i simboli si trascinano dietro. In quest’epoca dobbiamo sopportare certe operazioni didascaliche, evitando però furberie e semplificazioni.
Che ne pensi del progetto di Ai Weiwei per la facciata di Palazzo Strozzi, con i gommoni dei profughi? Un’estetica del relitto, che sfrutta episodi tragici e sofferenze reali, o qualcosa che smuove le coscienze? In cosa è simile o diverso il tuo David?
Ai Weiwei è un artista ufficiale, ufficializzato dalla critica e dal mercato. Il David nero ha giocato su un campo diverso: una piazza occupata per pochi giorni; una meteora, che ha forse trasferito molecole vitali nello spazio pubblico. Tuttavia, non si è inteso incrementare un valore economico dell’oggetto, da sfruttare sul mercato. Si è interrotta e vanificata la sequenza cronaca-arte-mercato, così come quella opera-autore-mercato. Inoltre non si percepiva nessuna strategia decorativa, nessun abbellimento.
La stessa cosa era accaduta qualche anno fa, quando è stata realizzata un’installazione per un evento delle Officine democratiche in piazza Santa Maria Novella. In quel caso avevo pensato a un barcone semidistrutto dalle onde, dentro allo scafo e intorno avevo fatto gettare mucchi di abiti recuperati dagli straccivendoli. Il tutto durò poche ore. Su quel palco si presentarono giovani politici carichi di grande entusiasmo, con grandi aspirazioni riformatrici. Alcuni di loro oggi sono al governo del Paese, e sicuramente ricordano quel barcone simbolo ieri come oggi della tragedia mediterranea.
Dopo il Pluto e Proserpina dorato di Jeff Koons, la tartaruga di Jan Fabre e il David nero, i fiorentini si stanno abituando a vedere le piazze storiche “desacralizzate” e contaminate in chiave contemporanea? O prevale ancora il dissenso? Perché secondo te – al contrario ad esempio di Tomaso Montanari – è in ogni caso la strada giusta?
Ben venga il dissenso. Cosa diversa dal qualunquismo populista di certi conservatori che si travestono da riformatori a destra e sinistra. Tomaso Montanari, di cui non ricordo studi importanti su Michelangelo o di arte contemporanea, ha scelto di sfruttare la sua autorevolezza accademica per intraprendere una carriera politica, in un intreccio di sapere e potere che non mi è mai piaciuto. Autorevolezza che ha alimentato e rafforzato con la polemica inscenata sui media, perché questi hanno una diversa visibilità rispetto alle aule universitarie. Infatti cerca sempre la considerazione dei politici di rango, in modo da ricavarne visibilità e posizionamento paritetico. Montanari fa la parte del conservatore che polemizza a prescindere, pensa solo a distruggere e delegittimare, senza approfondire e sviscerare.
Come nel caso del David nero?
Esatto. Ho l’impressione che da conservatore abbia paura del nero, della cancellatura delle ideologie, della caduta dell’idealismo. Si ha ormai la percezione di un confronto-scontro che non interroga la complessità del senso, ma si affida alla semplificazione retorica, decadendo nel qualunquismo e nel populismo.
Ultimamente Montanari rivolge la sua attenzione a Firenze, pensando a come conquistarla. Se fosse stato in città nei giorni della Michelangiolesca avrebbe potuto apprezzare il Camper dell’arte, I LAIKART, che anche quest’anno ha raggiunto piazze come quella di Ugnano, per condividere con le persone l’amore dell’arte e la conoscenza del patrimonio. Invece preferisce polemizzare nei salotti accademici televisivi. E se poi si fosse soffermato in piazza della Repubblica avrebbe sicuramente notato che Noi stava a pochi passi da una giostra con cavalli, intuendo, da attribuzionista qual è, che i riferimenti visivi aggiunti sul posto erano la Battaglia di San Romano e certe piazze di de Chirico.
Insomma, quel David era un soldatino buttato giù da un bambino demiurgo. Un’azione infantile per un teatro di guerra metafisico, ovvero il gioco dell’arte come rito apotropaico, un esorcismo concettuale e formale contro ogni violenza, reale o ideologica che sia. In definitiva, un gesto di puro dispendio creativo. Cosa che a lui risulta antipatica e antagonista. Tanto quanto gli sono antipatiche e antagoniste le opere di Koons e di Fabre, vera arte che viola i feudi del conservatorismo più sofisticato e intollerante. Proprio come quello di Montanari.
Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati