Intelligence e democrazia. Parola ad Armen Avanessian (1)
Nell’ambito della 9. Biennale di Berlino, si è appena conclusa un’esperienza destinata a fare parlare di sé. Tre settimane di incontri e discussioni condotti da Armen Avanessian e Alexander Martos, in collaborazione con Christopher Roth, su temi attuali e delicati: dalla gestione dei dati sensibili all’hackeraggio, passando per la costruzione di un servizio di intelligence democratico, alla portata di tutti. Ne abbiamo parlato con Avanessian, durante l’organizzazione dei lavori. Ecco la prima parte di una lunga intervista.
Ladar Levison, fondatore di Lavabit – il servizio di posta elettronica criptato interamente anonimo, usato da Snowden per arrivare a Laura Poitras –, è stato costretto ad abbattere il suo stesso sistema in seguito all’installazione forzata da parte dell’FBI di un device maligno nella rete utenti e all’obbligo di consegna delle chiavi private di crittografia. Si espresse in questi termini riguardo alle attività segrete dei governi: “Se permetteremo al nostro governo di continuare a operare in segreto, è solo questione di tempo prima che tu o la persona che ami, vi ritroviate nella stessa situazione che ho subito io: in piedi in un’aula giudiziaria segreta, solo e a porte chiuse, senza il benché minimo ausilio legale di protezione, unica difesa del popolo contro un abuso di potere da parte dello stato” (Secrets, lies and Snowden’s email: why I was forced to shut down Lavabit, theguardian.com, 20 maggio 2014). A distanza di due anni, nell’ambito della 9. Biennale di Berlino, si è tentata la fondazione di un servizio di intelligence democratico e dalla parte del popolo.
Il suo nome è Discreet e i suoi ideatori sono Armen Avanessian (Vienna, 1973) e Alexander Martos (Vienna, 1972). Dal 22 giugno all’11 luglio, esperti di tecnologia, arte, finanza e politica si sono dati appuntamento a Berlino per immaginare una forma democratica di intelligence. Avanessian ci ha raccontato le idee alla base del progetto.
Da dove nasce Discreet?
Il punto di partenza o l’ipotesi è che la risorsa decisiva del XXI secolo siano l’informazione, i dati. Alcune ben note corporation, come Google, Amazon, Apple e così via, detengono questa risorsa. Gli unici attori a livello globale in grado di resistere o combatterle, o per lo meno di far loro concorrenza a livello economico, sono i servizi segreti. Il problema con i servizi segreti esistenti è che sono antidemocratici. I loro fini sono oscuri, non legittimati democraticamente, non trasparenti. La nostra idea è che non si possa più prescindere dal fatto che i dati e le informazioni abbiano una tale importanza, pertanto vogliamo usare il saper fare e le tecniche dei servizi segreti, ma in maniera diversa. Invece di continuare soltanto a criticare la situazione in cui ci troviamo, pensiamo sia meglio farsi venire in mente un’alternativa. Il nostro obiettivo è fondare un servizio di intelligence per il popolo, e farlo sotto gli occhi del popolo. Perciò è una bella occasione poterlo realizzare nel contesto di questa Biennale e la location stessa ci permette di condurre un esperimento proprio attraverso due tensioni decisive: la segretezza e la democrazia.
Un progetto destinato a evolversi nel tempo…
Il programma è molto umile. Abbiamo invitato dodici/quindici persone con una loro precisa agenda, che già lavorano su determinati progetti, e li sosteniamo con soldi, con una location interessante, con il nostro saper fare, e con incontri combinati con altre persone. Non si occuperanno solo di Discreet, e di questa nuova istituzione, ma potranno anche lavorare sulla propria ricerca. Io e Alexander [Martos, N.d.R.] stiamo cercando di costruire una piattaforma, ma per me è già un successo che la gente possa scambiarsi concretamente conoscenze: se deve essere un servizio democratico di intelligence per il popolo, allora deve nascere in un gruppo più largo.
Stiamo lavorando su diverse strutture: alcune pubbliche, altre semi-pubbliche, altre ancora necessariamente chiuse. Alcune delle persone che abbiamo invitato, alcuni agenti, dispongono di informazioni che non possono diffondere. Sarà però molto utile per gli altri agenti entrare in possesso di queste informazioni e condividere esperienza.
Chi sono i protagonisti di Discreet?
Il principale padre fondatore di Discreet, assieme a me, per così dire, è Alexander Martos. Lui ha lavorato molto con la scienza e la divulgazione scientifica. Nel normale contesto politico e accademico non succede che specialisti nel campo della legge, della finanza, dell’hacking e della teoria politica si trovino per collaborare. Abbiamo lavorato anche con l’architetto Markus Miessen, che si occupa di Critical Spatial Practice. Abbiamo riflettuto molto su come costruire la scena nel modo migliore per gli agenti che vogliamo formare e con cui vogliamo lavorare, su come loro possano trovare qui l’occasione per procedere nei loro progetti, e anche su come ricreare una sorta di sistema di incontri combinati. Alcuni hacker, ad esempio, hanno conoscenze approfondite nel campo tecnologico ma non in quello giuridico o finanziario, e viceversa.
Quali sono gli obiettivi e gli argomenti?
L’idea è quella di creare un gruppo, perché naturalmente non può essere una decisione dall’alto, solo mia e di Alexander, su quale aspetto avrà questa agenzia. Probabilmente serviranno più di tre settimane prima di essere davvero pronti al lancio di questa istituzione, ma dobbiamo farlo insieme ad altri esperti di diversi settori e sotto gli occhi del pubblico, perché si tratta di un servizio di intelligence al servizio dei cittadini, non come quello che abbiamo attualmente, che è piuttosto contro i cittadini. Un argomento-chiave su cui insistiamo è l’affermazione che i servizi segreti esistenti abbiano sì dichiarato guerra al terrorismo ma anche, contemporaneamente, alle stesse popolazioni. Perciò ora dobbiamo sbarazzarci di questa guerra al terrore, che è una guerra contro di noi, combattuta con i nostri dati, la nostra sorveglianza. È un momento cruciale, ben rappresentato dalla vicenda di Edward Snowden: lui ha deciso di evadere dall’NSA, nell’esatto momento in cui ha capito che il servizio di intelligence per cui lavorava si era rivoltato contro il popolo e la sua sovranità. Per lui, come per me o chiunque altro, non si tratta di essere contrario ai servizi di intelligence in linea di principio, ma a condizione che sia un servizio segreto per il popolo e non contro di esso.
Come resistere alla morte del cyberspazio?
Dobbiamo fare una distinzione tra internet, il cyberspazio e gli hacker. A un primo livello, internet è un mezzo, qualcosa di neutrale. Non credo che gli hacker possano salvarci da alcunché. Il cyber spazio di internet libero, dove non si è localizzabili, non esiste più. Nel nuovo millennio sappiamo di produrre dati e di essere localizzabili. Stiamo vivendo una rivoluzione digitale e facciamo fatica ad attraversarla, mentre lei continua ad avanzare. Perciò penso che gli hacker non siano una soluzione, ma che dobbiamo imparare a usare le tecnologie. Siamo condannati a resistere, e non possiamo più resistere con gli strumenti del XIX o del XX secolo.
Che fine ha fatto lo spirito critico?
Sul fronte della curatela, nell’ambito di questa edizione della Biennale di Berlino, sembra prevalere un approccio che forse è una questione generazionale: mettere in dubbio le strategie consuete della critica e dell’opposizione. Perché i significati e gli strumenti consueti della critica, di cui siamo stati testimoni almeno nelle ultime tre o quattro decadi, non hanno funzionato, anzi potrebbero anche aver peggiorato la situazione. Siamo messi di fronte a un mercato dell’arte gremito di arte critica e oggetti d’arte critica. L’ultima Biennale che ho visto l’anno scorso a Venezia era colma di opere d’arte estremamente critiche. Intendo, per dirla in termini polemici, che non c’era un genocidio che non fosse trattato. E nel frattempo c’erano tre mesi di letture pubbliche dal Capitale di Marx. Il problema è che la maggior parte degli artisti viene da quelle solite, poche gallerie. Chi può permettersi di pagare tanto gli artisti da consentirgli queste enormi installazioni?
Dunque bisogna cambiare il modo di fare critica?
C’è una certa quantità di critica e opposizione che semplicemente non funziona, non solo a livello superficiale, ma anche a livello strutturale: quello che i sociologi Luc Boltanski ed Eve Chiapello chiamano lo spirito critico o lo spirito estetico del capitalismo. Tutti noi siamo soggetti critici ed estetici, dobbiamo fare critica, autocritica, per essere permanentemente originali e creativi. Assistiamo al trionfo di questi paradigmi del criticismo, dell’inventare se stessi e del reinventarsi, e l’arte contemporanea è l’avanguardia di questo processo. Se questo è il caso, più criticismo potrebbe non essere la soluzione.
Una generazione diversa si sta imponendo con sempre più rumore, una generazione che non usa più i vecchi strumenti e non reagisce più attraverso l’ironia, quanto piuttosto attraverso l’umorismo. Discreet non è umoristico nel senso dello scherzo: è una cosa molto seria, ma non critica. Non è “contro”. Cerca di tirare fuori un’alternativa migliore. La critica non trasforma, non cambia veramente le cose, la critica pensa, la critica ti mette in uno stato riflessivo dove ti opponi a qualcos’altro e pretendi di provare a conoscerlo meglio. Però a me interessa cambiare le cose.
Più intelligence per tutti, quindi.
Dovremmo definire che cosa è intelligence: intelligenza non è solo informazione, è cosa succede alle informazioni che vengono raccolte e consegnate a qualcuno che agisce. Un governo possiede un servizio di intelligence per avere informazioni, così da agire in una determinata direzione. Io credo che noi dobbiamo agire diversamente, e per cambiare modo di agire abbiamo bisogno di un’altra intelligenza, su tutti i livelli. Non posso dire se il nostro progetto si arenerà, perché non conosco alcun artista o filosofo che, invece di fare video sulle spie, o pubblicare una ricerca sui servizi segreti e come si sono sviluppati, ne abbia fondato uno. Sono insoddisfatto di come teoria e teoria politica vengono fatte, senza ottenere alcuna interazione e nessun impatto sulla realtà. Né sono soddisfatto di tutta questa conoscenza e arte critica, che altro non fanno se non andare a finire a loro volta nel mercato dell’arte, producendo ancora più denaro e riciclaggio di denaro. Noi stiamo cercando di fare qualcosa. Potrebbe fallire, ma anche no, perché nessuno si è spinto così lontano. E di certo non falliremo nel senso in cui ha fallito l’NSA, perché, anche volendo essere ottimisti, non credo diventeremo mai così grossi.
A meno che non siano loro a pagarvi.
Cosa che potrebbe essere come non essere, sì.
Silvia Eleonora Longo e Marica Rizzato Naressi
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