Viaggio, tempo e attenzione alla dimensione esperienziale e sensibile dell’esistenza. Sono questi i punti cardine della poetica di Abbas Kiarostami, recentemente scomparso all’età di 76 anni. E questi stessi temi emergono dalle parole del regista, intervistato da Marcello Faletra qualche anno fa.
Nei tuoi film spesso il caso è una componente essenziale del viaggio. Quanto c’è di biografico in questa scelta o legato a esperienze personali, e quanto invece è un elemento volontario, una dimensione provocata?
C’è un’espressione, non ricordo di chi è, ma mi piace molto, che dice che quelli che non escono mai di casa non sono mai testimoni di niente. Viaggiare è testimoniare e quindi poter raccontare, qualsiasi cosa, ma raccontare. In Iran c’è una forma più profonda che dice che il viaggio matura l’essere umano, in qualche modo completa l’opera della creazione dell’uomo… perché la vita è un insieme di fatti belli e brutti che gli danno un senso.
Mi colpisce il ruolo dei bambini nei tuoi film. Sembrano angeli caduti che man mano traghettano gli uomini dal male all’innocenza. La purezza del loro sguardo contrasta con la miseria del mondo degli adulti.
La differenza fra gli adulti e i bambini e che questi sono molto più coraggiosi degli adulti, più improvvisati. I grandi quando progettano un viaggio hanno sempre uno scopo, un fine che devono portare a un risultato, tendono sempre a un profitto; mentre per i bambini non è così, loro viaggiano per il puro piacere di viaggiare, non hanno uno scopo. Il viaggio fa parte della loro vita, perché la loro vita è già l’inizio di un viaggio; si spostano da un anno all’altro senza conoscere l’idea di morire. Mio figlio qualche anno fa era piccolo, adesso lo vedo più grande, e così crescono insieme agli anni che imparano a contare. I bambini sono l’idea incarnata di chi è in viaggio nella vita.
Ci sono ampie parti del tuo lavoro dove spesso i luoghi sono sottomessi a una temporalità non cronologica, ma qualitativa, svincolata dal passato, ma anche dal presente. Questo tempo va avanti e indietro liberamente…
Sì, è così. Non vedo come potrebbe essere diversamente. Ad esempio da quando sono in questo luogo [a Palermo, N.d.R.] varie persone mi hanno raccontato la loro storia, ma questo non significa che noi siamo nel XXI secolo. Dove siamo adesso è un edificio del XVIII secolo. E noi siamo testimoni di un evento di quel periodo; c’è una convergenza tra percezione e storia che alimenta il nostro sguardo e lo fa viaggiare in altre epoche. Confondiamo spesso le date di nascita dei palazzi con la loro storia. Sarebbe come confondere e ridurre la storia di una città con la sua data di nascita. Se noi siamo qua all’interno di questo edificio, non vuol dire che siamo nel giorno stabilito dal calendario, che è oggi, significa invece che noi stiamo viaggiando temporalmente. C’è una specie di incontro: il palazzo che ci accoglie e noi che vi entriamo dentro; paradossalmente siamo, allo stesso tempo, un po’ nel XXI secolo e un po’ nel XVIII secolo.
Nella tua visione del tempo quindi non c’è una linearità o una successione cronologica.
No, assolutamente; ovviamente non è proprio cosi, perché la fantasia di ciascuno tende a essere libera da uno schema temporale di tipo cronologico, tende a liberarsi da una visione del tempo concepito come una scatola chiusa. Perché la salute della fantasia sta nell’essere sparpagliata in vari luoghi, si diffrange in molte direzioni. Ad esempio recentemente hanno buttato fuori dalla scuola mio figlio perché era un po’ vivace; io son dovuto andare dal suo insegnante e parlargli per lungo tempo e dirgli che questa animosità è un sintomo di salute spirituale, e che se fosse stato sempre eccessivamente attento, forse proprio questo sarebbe stato il vero problema.
Perché ciò vuol dire che i suoi sensi viaggiano in tutte le direzioni, sono sollecitati dai suoni, sono sani.
Tu hai guardato molto al cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta…
Sì, l’ho amato e continuo ad amarlo. Penso soprattutto a Pasolini. Penso al fatto che utilizzava attori non professionisti dandogli la dignità di un attore come una star di Hollywood. Ciò che conta non è la recita in se stessa, la finzione che assorbe tutto, compreso l’attore, e lo trasforma in un involucro perché deve aderire alla sceneggiatura quanto più possibile. Mi importa invece il fatto che chiunque possa raccontare una storia, per sé e per gli altri. Io non faccio parte di nessuna scuola. Narro storie che vanno avanti e indietro nel tempo. Per me fare cinema è un viaggio inseparabile dalla vita. Non è una professione. Per questo ci metto dentro pure i dubbi, le pause, le incertezze… tutte sfumature che ci segnano nella vita, ogni giorno. Cerco di mettere in gioco questi sentimenti, dar loro lo spazio che meritano, perché sono come quei vuoti attorno ai cui la nostra esistenza si costruisce e viaggia.
Marcello Faletra
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