La Cura Summer School, un corso per vivere connessi
Dal 22 al 26 agosto, l’ISIA di Firenze ospiterà “La Cura Summer School”, il progetto didattico interdisciplinare ideato da Salvatore Iaconesi e Oriana Persico. I temi, numerosi e decisamente attuali, spazieranno dall’iper-connessione del mondo contemporaneo alla relazione con le nuove tecnologie, aprendo nuovi canali di dialogo.
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, gli ideatori de La Cura Summer School, raccontano origini e finalità di un’iniziativa che non smette di evolvere i propri obiettivi. Un’impresa avviata nel 2012 dalla coppia in risposta alla malattia che ha colpito Iaconesi, sfruttando il web e le nuove tecnologie come un utile, e reale, strumento di connessione.
Partiamo dal tema della Summer School: che cosa significa “abitare il pianeta come una mente interconnessa”?
Abitare è un verbo particolare, spesso vissuto in modo passivo: risiedere. Ha invece un senso attivo, che coinvolge moltissime sfere del nostro essere, inclusa la responsabilità e il posizionarsi all’interno di un contesto che occupiamo e modifichiamo in ogni istante con la nostra presenza. Dove-siamo-chi-siamo-cosa-facciamo: questa dimensione coinvolge il sé, il corpo e l’ambiente. Il nostro “abitare” oggi è (anche) ubiquo e connesso: come ci rapportiamo a questa mutazione? La percepiamo? La performiamo?
Perché avete scelto proprio questo punto di vista?
Nel corso de La Cura [il progetto che ha trasformato la malattia di Salvatore, un tumore al cervello, in una grande performance collettiva, N.d.R.] abbiamo sperimentato un corpo ubiquo attraverso l’interconnessione di una moltitudine di persone sparse su cinque continenti. Lingue differenti, luoghi differenti, tempi differenti uniti da una possibilità: l’interconnessione, l’esistenza di un link, l’estensione tecnologica delle nostre sfere relazionali. Ci siamo chiesti cosa sarebbe accaduto se queste relazioni fossero trasferite sul corpo, rendendoci sensibili all’interconnessione.
Tra l’altro non è un tema nuovo per i vostri lavori, giusto?
Giusto. Non è nuovo né per noi né per la storia dei media o dell’arte. Basti pensare ai concetti espressi da McLuhan oltre sessant’anni fa. Con una differenza: tutto questo si sta materializzando nelle nostre vite a una velocità che lascia poco spazio per assorbire il cambiamento. Abbiamo, nelle nostre case, lavatrici, frigoriferi, spazzolini che comunicano con i sistemi IoT (Internet of Things) e li usiamo. Ci mettiamo addosso un FitBit e andiamo a fare jogging producendo e condividendo dati (dal battito cardiaco ai percorsi). Oggetti che fino a pochi anni fa semplicemente non esistevano.
In che modo l’esperienza pluriennale di un progetto come La Cura può essere canalizzata in un progetto didattico?
L’istruzione è un media globale. Che sia di vecchio o nuovo stampo, formale o informale, in un’aula scolastica, in un FabLab, su Internet, in un bosco o in un supermercato, tutto ha inizio con l’istruzione: la formazione dell’immaginario, della cultura, della percezione di ciò che è normale, possibile, “strano”, accettabile, legale, e così via.
Se abbiamo imparato una cosa dalla Cura, è che la distinzione tra chi cura e chi è curato è tutt’altro che banale, o fissa. Non è detto che sia solo il medico a curare il paziente, in modo unidirezionale, o che questa relazione sia solo diadica, o stabile nel tempo e nello spazio. Questo vale anche per altre cose, inclusa l’istruzione. Noi crediamo in un modello ecosistemico, in cui ci sia un ambiente e, in questo, una rete di relazioni dinamiche in cui ciascuno è partecipe con tanti ruoli differenti, a seconda del contesto.
Nel libro che avete pubblicato per Codice Edizioni, oltre a raccontare con toni profondamente umani la vicenda privata della malattia di Salvatore, cercate anche di fornire degli strumenti culturali e teorici per interpretarla. In che modo avete strutturato la ricerca teorica che sostiene il progetto?
In effetti il libro ha una struttura particolare. È diviso in sezioni e ogni sezione contiene i punti di vista di Salvatore e Oriana (i capitoli “S” e “O”), la ricerca (i capitoli “R”) e i workshop (i capitoli “W”). I capitoli “R” sono un diverso punto di vista sulla storia. Ciò che abbiamo vissuto e raccontato nelle parti narrative-autobiografiche viene contestualizzato, ripreso e usato per avere degli strumenti di analisi e di interpretazione. È un feedback continuo fra questi due strati che è servito anche a noi per tornare indietro e capire cosa ci era successo, perché avevamo fatto determinate scelte o vissuto determinate cose in un certo modo, e proiettarci in avanti per capire come continuare a strutturare la performance oggi.
La ricerca contenuta nel libro è transdisciplinare per natura: per affrontare il cancro abbiamo dovuto mettere in gioco tutti gli strumenti che avevamo e ci siamo confrontati con dimensioni della vita che vanno dall’ospedale, alla tecnologia alla morte. Consideriamo la ricerca un incipit da espandere, anche qui non da soli, ma connettendoci.
A chi si rivolge la Summer School? Che tipo di pubblico vi aspettate?
Il risultato della Summer School è complesso e richiede di attraversare tante modalità e competenze differenti: dai dati, agli algoritmi, allo studio delle reti relazionali sui social network, la grafica generativa, la visualizzazione di informazioni, lo studio dei materiali, la realizzazione di una installazione interattiva e di un dispositivo indossabile, toccando anche le implicazioni critiche, psicologiche e antropologiche relative alla disponibilità di un senso aumentato sul tuo corpo. Per questo serviranno sicuramente persone che sono interessate, da un lato, all’aspetto tecnico/tecnologico e, dall’altro, a un lato umanistico e delle scienze. Ci aspettiamo, quindi, artisti, designer, ricercatori, studenti, maker, antropologi, filosofi, data scientist e persone capaci di attraversare le discipline.
L’output finale dell’esperienza didattica sarà un’installazione. Ce la raccontate?
Il risultato è diviso in tre parti: un’installazione, una tecnologia indossabile e una visualizzazione di informazioni. L’installazione raccoglierà dai social network, in 29 lingue, tutti i messaggi che parlano di “abitare il pianeta” e ne renderà visibili e interattive le espressioni emozionali. Un oggetto che porterà “il pianeta in una stanza”, permettendo, guardandolo, di capire quali sono i desideri, le paure, le gioie, le visioni, le aspettative delle persone di tutto il mondo quando parlano di come abitano la terra. La tecnologia indossabile farà la stessa cosa, ma sul corpo, realizzando il senso aumentato. Una nuova tattilità che rende il corpo sensibile alle emozioni planetarie: è il corpo interconnesso, che apre tante possibilità, opportunità e, ovviamente, anche tanti problemi, criticità e domande per cui non abbiamo ancora risposta.
Il terzo elemento è la visualizzazione dei dati, che sarà eseguita attraverso uno schermo urbano, di dimensioni architettoniche, con cui renderemo accessibili le informazioni nello spazio pubblico, visto che sarà esposto verso la città di Milano, dall’ExpoGate. È l’ubiquità: da un lato il materializzarsi dei dati e dell’interconnessione sul corpo come “senso aumentato” e “nuova tattilità”, dall’altro il loro materializzarsi nello spazio pubblico della città. Un cortocircuito.
Come è nata la collaborazione con la Triennale?
Grazie a Condividi la Conoscenza, evento promosso da Fiorello Cortiana dal 2002 che esplora l’intersezione fra la sfera antropologica e biologica del vivente, e che quest’anno sarà ospitato dalla Triennale. C’è stata subito una adesione al progetto da parte della Triennale che ne ha riconosciuto la coerenza con il tema Design after Design e la consistenza della proposta culturale.
Qual è il futuro del progetto La Cura? Il suo sviluppo è quello che vi aspettavate oppure sta prendendo vie che non immaginavate?
Possiamo dirlo in una parola? Meraviglia! Il fatto essenziale è che sta accadendo: la performance continua. Insieme alla Summer School, l’8, 9 e 10 luglio saremo a Bologna con l’edizione “0” del festival de La Cura – Complessi, Connessi, Indisciplinati. Non abbiamo scelto noi di fare il festival: quando siamo arrivati a Bologna pensavamo a un reading collettivo del libro, ma si sono scatenate dinamiche e relazioni e la connessione ha preso una strada differente, fino a un festival di tre giorni con talk, performance, mostre e installazioni per esplorare il ruolo della complessità e della trasgressione nelle società contemporanee.
Non possiamo fare a meno di chiederlo: Salvatore, come stai adesso? Come procede la tua personale cura?
Stiamo bene, permettici il plurale! Francesca Fini, artista e performer, ha definito La Cura una performance “durazionale”, nel senso che dura tutta la vita. Ci sembra una bellissima definizione.
Valentina Tanni
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