Un museo per Nitsch e una nuova casa a Napoli. Parla Peppe Morra
Terzo appuntamento con la tre giorni partenopea. Dopo i dialoghi con Angelo Trimarco e Stefania Zuliani, che hanno raccontato la città dagli Anni Sessanta a oggi, è il turno di un altro protagonista. A parlare è Peppe Morra: una vita con l’arte, a fianco del vulcanico Hermann Nitsch. E adesso c’è una grossa novità che ci anticipa in questa conversazione.
Il Museo Nitsch di Napoli spegne sette candeline. Il suo promotore, Peppe Morra, ne spegne invece settanta. Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare la sua storia. E non è mancata l’anticipazione di un nuovo spazio per Napoli.
Lei è sempre stato un collezionista, un mecenate, un appassionato d’arte. Ma prima di cominciare questo suo percorso nell’arte, che lavoro faceva?
Nasco in una famiglia dedicata alla cultura della terra. Io stesso fin da bambino ho preferito una cultura d’esperienza, da autodidatta, piuttosto che una formazione prettamente accademica o scolastica. È stato questo il primo motivo che mi ha portato a capire che nella vita ci sono molte possibilità di crearsi una propria, individuale capacità di concepire l’esistenza.
Dal 1968 comincia a frequentare la galleria di Lucio Amelio, prima Modern Art Agency e, nel 1974, decide di aprire lo Studio Morra, la galleria nel quartiere di Chiaia.
Prima di allora ero stato un compagno tra molti altri compagni, ma a un certo punto ho capito che la politica mi stava troppo stretta. Da quel momento ho cominciato a interessarmi alla filosofia. Nietzsche mi ha dato la possibilità di capire molte cose. Lo stesso Rudolf Steiner e Max Stirner. Con queste letture è cambiata la mia vita. Nel 1968, senza avere l’esperienza del promotore culturale, ho comunque creato al Vomero il Centro d’Arte Europa, con alcuni amici quali Luigi Mainolfi, Giuseppe Maraniello, Errico Ruotolo. Sono stato legato a Stelio Maria Martini e Luciano Caruso e con questi ultimi due abbiamo fondato la rivista Silence Walk, nel 1970-71. Nel 1972, invece, due grandi mostre mi hanno veramente influenzato: la Documenta di Harald Szeemann e Contemporanea di Achille Bonito Oliva.
E l’incontro con Amelio come avviene?
In realtà è lui che mi viene a trovare, in occasione di una mostra di Sergio Lombardo, e tra noi nasce subito una straordinaria amicizia. Lucio è stato forse uno dei miei primi estimatori. Mi ha consigliato lui di trovare uno spazio che non fosse al Vomero, bensì in centro a Napoli. Premetto che avevo fatto anche diverse esperienze come imprenditore edile, quindi avevo anche una certa autonomia economica. Seguendo il suo consiglio, mi sono trasferito in via Calabritto 20 e con Lucio e Lia [Rumma, N.d.R.] è nato subito un rapporto di scambio. Siamo nel 1974.
Com’era Napoli in quegli anni? È innegabile che la città in quel momento stesse vivendo un momento di grande fermento. C’erano moltissimi artisti, Bonito Oliva, la Libreria Guida, la scena musicale ha prodotto tantissimi autori poi divenuti importanti, guardavate già al nord Europa e al Living Theatre e così via. C’è qualcosa che le manca di quel periodo?
Non vorrei dire di sì. Sicuramente la Libreria Guida è stata molto importante nella mia formazione, soprattutto se ricordiamo che l’esperienza della cosiddetta Saletta Rossa viveva su iniziativa di personaggi del calibro del mio caro amico Luigi Castellano o di Achille Bonito Oliva, con la sua attività intorno alla poesia visiva e a un certo cambiamento del linguaggio. Per quanto riguarda invece le gallerie, c’erano state fino ad allora poche esperienze. Noi tre o quattro eravamo i soli che avevano un contatto esterno con artisti stranieri. Tutti hanno percepito che potevo essere un buon interlocutore degli artisti e dell’arte.
Quali artisti?
Allan Kaprow, ad esempio, che è stato anche a Napoli, dove abbiamo creato quattro o cinque installazioni insieme a Gino Di Maggio. Ho sempre amato molto il rapporto con gli artisti, che venivano a Napoli in qualità di miei ospiti, stavano con me, lavoravamo insieme…
È proprio del 1974 la prima mostra di Peppe Morra dedicata all’Azionismo Viennese, con il lavoro di Günter Brus, attraverso il quale entra in contatto con Hermann Nitsch. Cos’ha pensato la prima volta che lo ha incontrato?
Il lavoro di Nitsch l’avevo visto a Documenta a Kassel nel ‘72 e stranamente mi ero chiesto se quella poteva essere arte oppure no. Ho avuto forti dubbi. Ma non ho voluto fermarmi alla prima impressione e ho cercato di andare avanti, di addentrarmi nel più profondo significato del suo lavoro. Ho quindi cominciato a leggere i testi di poesia, teatro greco, filosofia nei quali il suo lavoro affonda le radici. Per me è l’artista più rivoluzionario di tutti i tempi.
E l’incontro con la persona?
È stato facilissimo. Appena ha saputo da Brus che ero interessato al suo lavoro, è venuto a Napoli con la moglie Beathe e abbiamo messo insieme una programmazione per la città.
A parte gli artisti, chi sono stati i suoi veri compagni di strada?
Ce ne sono stati molti. In modo particolare un mio precettore che aveva vent’anni più di me e quando avevo sedici anni mi dava una mano a leggere gli autori più difficili, da Pier Paolo Pasolini a Gabriele D’Annunzio. Ci portava inoltre a teatro a vedere le opere drammatiche e ci incoraggiava a tirare le noccioline. La formazione che ci ha impartito è stata classica e allo stesso tempo provocatoria.
Quando ha deciso invece che era giunto il momento di passare da un’attività di galleria a quella di promotore culturale?
È avvenuto per necessità. Dopo trent’anni ho sentito che non c’era più ragione di fare e pensare solo dell’arte. Avevo bisogno di ampliare gli orizzonti e anche lo spazio, passando da via Calabritto al quartiere dei Vergini, con il conseguente dovere di portare qualcosa di diverso in questo mondo. Mi hanno incoraggiato il rapporto con Aldo Loris Rossi e Luca Castellano, inoltre. La prima mostra che abbiamo fatto alla Fondazione Morra nel 1991 già sfociava verso il mondo della formazione, che per me è diventato progressivamente sempre più importante, andando a incontrare il tessuto differente con cui avevamo appena cominciato a rapportarci. Abbiamo pensato che fosse necessario costruire un senso della città più allargato. Questa urgenza non ha tempo e non ha spazio e nasce dalla volontà di migliorare la condizione sociale della città. Nel 2003, prima del Museo Nitsch, abbiamo creato, infatti, il Quartiere dell’Arte, che ospita studi per artisti, spazi espositivi, una grande tipografia e molto altro. Vorrei riuscire a inserire anche gli artigiani del napoletano, con un approccio tra valorizzazione e formazione, in una dimensione partecipativa ed economica, diventando una piccola cittadella, in cui molti giovani si danno già da fare.
Sicuramente quello con Nitsch è stato un incontro che ha in qualche modo cambiato la sua vita, tanto che nel 2008 ha deciso di fondare un vero e proprio museo a lui dedicato. Si tratta di un omaggio veramente sentito, ma immagino anche di una scelta difficile, dal momento che per anni lei ha lavorato con moltissimi artisti, con cui avrà costruito percorsi comuni. Vengo al dunque: gli altri si sono arrabbiati?
Gli artisti sono egoisti, gelosi e ovviamente permalosi. Non hanno avuto proprio il coraggio di dirmi apertamente “cosa hai fatto?”, ma il loro sentimento era tangibile. Ma anche su questo ho trovato una soluzione, forse un po’ tardiva. Presto nascerà una Casa Morra – archivio per l’arte contemporanea, che aprirà a ottobre con il progetto Il Gioco dell’Oca – Cento anni di mostre. Sarà un palazzo del Seicento, aperto a tutti, con 4mila mq di spazio, dove ruoteranno tutte le esperienze di questi artisti che avevo un poco scontentato. Lo spazio è strategico, ma anche l’idea di questa mostra Il Gioco dell’Oca dà il senso dell’attraversamento… Vedi, io non ho un quadro per artista. Ognuno di loro mi ha lasciato un patrimonio molto consistente di opere.
A chi si riferisce in particolare?
A parte Hermann Nitsch, penso a Luca Maria Patella, Vettor Pisani, Nanni Balestrini, Shozo Shimamoto, Al Hansen, Gina Pane, Urs Lüthi, Marina Abramović. Sono molto orgoglioso di possedere un patrimonio unico al mondo, molti dei lavori di Julian Beck del Living Theatre: ben 105 opere, dal ’45 al ’55, più 400 disegni e molte scenografie, in modo particolare quella del Matusalemme Giallo. Negli ultimi anni ho acquisito quattro scatoloni di tutti i documenti che la cara amica Judith Malina ha voluto donare alla Fondazione Morra.
E dei giovani italiani chi le piace?
Mi sento vicino a tutti i giovani. Un delicato pensiero bisogna averlo per tutti quelli bravi. Poi ci sono quelli più bravi e vanno presi maggiormente in considerazione.
Qualche nome?
Gian Maria Tosatti, Piero Golia, Matteo Fraterno, Maurizio Elettrico.
Tutto questo lavoro è farina solo del suo sacco?
Naturalmente abbiamo cominciato a lavorare anche a contatto con le istituzioni, ma Teresa Carnevale, presidente della Fondazione, lo sa fare bene e pur essendo molto giovane ha la capacità di rapportarsi con esse, ottenendo dei contributi che ci fanno procedere con maggiore leggerezza. Tuttavia, a mio parere, con gli artisti nessun sacrificio è invano. Quando penso a cosa sarebbe stata la mia vita senza l’arte, penso che sarebbe stata vuota. Con l’arte ho provato il piacere di sapermi in vita e di avere moltissimi amici.
Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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