Primo Brown, il re dell’hip hop. A pieno titolo
È stata una figura di riferimento per il panorama dell’hip hop italiano. Nato e cresciuto a Roma, tra quelli che contribuirono a fondare la scena capitolina, Primo Brown si è spento l’ultima notte del 2015. La sua band, i Cor Veleno, gli tributano un nuovo brano, con una bella produzione video. E l’occasione è quella giusta per ricordare, con le parole di Grandi Numeri, amico e compagno d’avventure musicali, chi era Primo e quanto è forte la sua eredità.
UN CANZONE PER PRIMO
Il brano entra deciso, non risparmiando il pathos. Poche note al piano, un giro nostalgico, l’inizio di un viaggio come un dondolio privato, riavvolgendo il nastro. Poi il cantato s’infila sulla melodia che incalza, disperatamente asciutta. Una sfilza di barre malinconiche, l’eco della rabbia, il refrain. La città si spalma sul monitor, dall’alto, mentre i passi contano distanze, tra vicoli, gesti, persone. Ancora a ricordare, ancora a camminare: “A puttane il cielo / Verso l’ultima goccia di veleno / Un’altra boccia di odio pieno / Adesso guarda quanti semo / Questa è Roma e non ce la trovi la firma sotto la tua resa / E mo’, senti come suona / E mo’, senti quanto pesa”. Un testo denso, che ha tutta l’energia dei suoni e di certi legami, tra rime che benedicono giorni e notti di metallo; e intanto, “parlo con te e non passa / Schivando colpi fra rullante e cassa”. Sullo schermo, dentro un cinema vuoto, i ricordi sono spezzoni di vecchi filmati, recuperati tra amici e montati con cura, in un bianco e nero che sparge cenere random.
Ed è tutta una corsa sincopata, ispirata, questa canzone lanciata in rete a giugno 2016 dai Cor Veleno, storica band hip hop romana, qui affiancata da Danno, leader dei Colle der Fomento e compagno di molti palchi, di tante collaborazioni. Una canzone speciale. Perché A Pieno Titolo è un tributo ad un fratello. Sempre presente, in musica e parole.
Moriva nella notte fra il 31 dicembre 2015 e il 1° gennaio 2016, esattamente allo scoccare della mezzanotte, Primo Brown, al secolo David Belardi. Per tanti semplicemente Primo, o affettuosamente Primero. Figura di riferimento dell’hip hop italiano, un pilastro della scena capitolina, uno che aveva seminato e raccolto, mettendoci qualità, coerenza e umanità. E mentre gira questo pezzo commosso, musicalmente prezioso, il volto di Primo sul monitor sorride, sereno. Sempre in compagnia della sua band: Dj Squarta e Giorgio Cinini aka Grandi Numeri.
“Era una delle ultime canzoni a cui avevamo lavorato”, ci racconta Giorgio, “quando Primo non stava ancora male. Avevamo registrato una precedente versione, l’avevamo scritta con lui. Oggi, in una nuova veste, è diventata un’occasione per ricordarlo, grazie anche al video di Niccolò Celaia e Antonio Usbergo di You Nuts Productions, con cui avevamo già collaborato in passato. Con noi c’è Danno, nostro grande amico: anche lui ha voluto testimoniare con questo pezzo il suo affetto per Primo”.
FRATELLI, AMICI, PIONIERI. VENT’ANNI FA, I COR VELENO
Sono lontani i giorni delle prime fatiche, quando intorno c’era più o meno il niente. Loro, nei panni di nuovi pionieri, si giocavano una sfida senza paracadute. Una nuova scena meritava d’essere tracciata, assumendosi il rischio di ripensare i modelli. E di divertirsi davvero. “I Cor Veleno nascono nel ’94. Squarta si è unito a noi a fine Anni Novanta e all’inizio degli Anni Zero sono arrivati i primi lavori musicali. A unirci, innanzitutto, è stata l’amicizia. Era questa la cosa che contava, al di là del fatto di suonare insieme. Un legame che poi veniva fuori nei live, nella nostra musica, nel lavoro”. E parla di Primo, Giorgio Cinini. Parla di questo fratello perduto troppo presto, che la vita gli aveva messo sulla strada quando ancora erano giusto due pischelli. Destinati a non staccarsi più.
“L’amicizia con David è antica, risale a ventisei anni fa, ancor prima che nascesse il gruppo, e ha attraversato vari traslochi e spostamenti. Io, ad esempio, da ragazzino ho vissuto un po’ di anni a Palermo. Ma eravamo sempre in contatto: io, lui e anche Danno, che era parte di questo nucleo, di questo sodalizio. Avevamo 15-16 anni e sentivamo il bisogno di portare avanti una cultura – quella dell’hip hop – che ai tempi in Italia era quasi assente. Non c’erano artisti che producevano dischi, che andavano in tv, che si misuravano coi live. C’erano dei ragazzi che prendevano un microfono in mano e facevano delle rime, guardando alla scena americana. Tutto lì. Mancavano ancora produzioni coerenti, equilibrate, forme definite. In sostanza, in quell’ambito, mancava l’idea di band. Ed è in questa direzione che abbiamo cercato una chiave credibile. Noi come Cor Veleno e Danno con i Colle der Fomento”.
Iniziare a scrivere la storia dell’hip hop italiano, essendo poco più che adolescenti. Ecco la sfida. Con tutta l’incoscienza del caso e tutta la testardaggine che serviva. E la passione, naturalmente. “Noi non siamo cresciuti nella Old School”, continua Giorgio. “Avevamo amici più grandi che ci facevano ascoltare alcune cose, certamente innovative per l’epoca, ma fin da subito abbiamo cercato di creare qualcosa di diverso, che fosse davvero nostro. Eravamo dei ragazzi nati e cresciuti nel tessuto romano e volevamo essere autentici, credibili, al di là degli stilemi, le cifre, i generi e le identità arrivati dagli USA. Negli Anni Ottanta la tendenza era un po’ questa: si prendeva acriticamente tutto ciò che veniva da lì, quasi fosse una cosa idealizzata, da emulare in tutto e per tutto. Noi volevamo essere una voce dissonante. Cercavamo il nuovo, l’autentico. Un’altra via”.
UN VIAGGIO DIFFICILE
E così fu. Per vent’anni di fila, con vari dischi all’attivo, una marea di live, tanti videoclip, i festival e le menzioni, il sostegno dei fan e la critica a favore. Vent’anni di musica scritta, suonata, cantata e condivisa, finché nel 2014 Primo è costretto a fermarsi. Ad annunciarlo è un post, gettato nel rumore bianco di Facebook: “Devo affrontare un viaggio difficile che non so dove porta, e come ritorna indietro, devo solo farlo. Questo bloccherà le mie attività di base per non so quanto, non mi vedrete fare live, e non so darvi altri appuntamenti”.
La malattia arriva come un macigno, a sospendere il tempo del lavoro, dei progetti, dell’amore. È una partita a due, spietata. E dopo un anno e mezzo di resistenza, chi vince non è lui. Primo muore, a 39 anni appena, lasciando una comunità sotto shock. I familiari, gli amici, il popolo dell’hip hop, ma non solo. Chiunque abbia anche soltanto sfiorato il perimetro del rap italiano – quello di sostanza, innovatore e insieme consapevole di una tradizione – avrà quantomeno sentito parlare di Primo Brown. E di quella corrente impetuosa, sincera, che a Roma aveva trovato spazio, folle, plausi, occasioni, contaminazioni.
Piovono, quella notte d’inverno e nei giorni a venire, decine di messaggi di cordoglio, da parte di colleghi vicini e lontani: 99 Posse, Saturnino, Space One, Emis Killa, Jovanotti, Fabri Fibra, Piotta, Ensi, Gemitaiz, Nitro, Madman… Da quel momento l’eredità di Primo resta una cosa forte, indiscussa, che sarà nuova musica, nei dischi futuri della band, nei prossimi palchi e nei tributi, come quello organizzato lo scorso 25 marzo all’Atlantico di Roma. Un concerto con il best of della scena rap e hip hop italiana, dinanzi a oltre 3.000 persone: sold out, con code infinite di fan rimasti fuori dai cancelli.
E sarà un patrimonio concreto e ideale, fatto di esempio umano e professionale, di metodo e di intenzione. Ma anche di note incise, di strade battute. “L’eredità di Primo sta proprio qua: insieme abbiamo cercato di traghettare quel mondo, con un certo immaginario collettivo, verso una dimensione che fosse verosimile per l’Italia. Creare un linguaggio, una forma di spettacolo, una maniera onesta e non artefatta. Essere il più diretti possibile”.
NESSUNA FINZIONE
Eredità in musica, dunque. Alla maniera loro. “Nei nostri pezzi”, spiega ancora Giorgio, “ci sono echi di moltissime cose, di moltissimi generi, tutto quello che abbiamo ascoltato negli anni. In fondo è come un gioco di scatole cinesi, la musica non è altro che un mappamondo con mille coordinate. E con Primo – la persona più capace di divertirsi con la musica che abbia mai conosciuto – è stato facile lavorare in questo senso”.
Cor Veleno sono sprizzi di funk e soul mescolati alla corrente ritmica del rap, il jazz che sbuca qui e là, suadente, il piglio grezzo del rock come un’eco sotterranea, la freschezza, l’intimismo e la malinconia di certi cantautori italiani. Un mix che trova, alla fine, la forma di una canzone hip hop, tra profondità e leggerezza, ironia e tormento, vibrazione emotiva e critica sociale.
Questo era ed è il sound della band. E questa era la precisione di Primo, la dimestichezza di note e di linguaggio, la cifra poetica, lo slang ammiccante, la musica come un declamare continuo, traduzione simultanea del reale in versi, in microstorie infuocate, accelerate, così personali.
Molto carattere, zero arie da divo. E la voce, di Primo. Timbro tiepido, in cui s’impastavano il graffio rude e il flusso gentile. Proprio come appariva lui, dall’esterno almeno. A volte brusco, senza mediazioni, insofferente al politically correct. E poi quella dolcezza tra le mezze tinte e le note basse, una specie di candore. Una sensibilità che era già nelle parole intonate o dette, persino nei tratti del viso, minuti, decisi, fra il broncio ed il sorriso.
L’hip hop, aveva raccontato Primo in una delle tante interviste, era stato per lui una “linea di trasformazione del male in bene”, una passione radicale con cui elaborare anche i pesi della vita, le delusioni, il cinismo diffuso, la deriva di questi tempi ostili. Salvarsi così, provando a intercettare i chiaroscuri del mondo, reinventati ogni giorno davanti al feticcio “microfono”. O meglio, al Micro de oro. Questo il titolo della sua ultima fatica, un disco registrato insieme all’amico Tormento, ex Sottotono, per la label ThisPlay Urba. Due attitudini e due stili diversi – più hardcore quello di Primo, più soul quello del collega – armonizzati a dovere per una carrellata di pezzi crudi, schietti, precisi, senza fronzoli né manierismi. Anche in questo caso la critica promuove a pieni voti.
“Primo era autentico”, ricorda infine Giorgio. “Aveva un modo tutto suo di dire le cose, in un mondo fatto di finzione, di ipocrisia. Era una persona diretta, senza mezze misure, senza ambiguità. Se gli piacevi, se stava bene con te, eri il suo migliore amico. Se gli eri antipatico non lo dissimulava. Te lo diceva in faccia. Era generoso, nel senso più ampio del termine. Si è dato per i suoi fan fino all’ultimo e ha sempre dato tutto con gli amici, con le sue donne, senza mai risparmiarsi o tirarsi indietro. Una persona unica. Ovunque c’è gente che indossa una maschera, che finge, che passa il tempo a limare gli spigoli per incasellarsi meglio, per trovare spazio. A lui, a noi, questo modo non è mai interessato. Primo è rimasto un ragazzo. Se diventare adulti significava confrontarsi con un certo tipo di cose, di compromessi, di falsità, lui ha preferito restare così, com’era sempre stato”.
E con quel piglio di ragazzo se n’è andato, dopo aver lasciato un po’ di intuizioni decisive. Così oggi, invocando tra nuovi versi “il vero re dell’hip hop”, i suoi fratelli incidono la metafora in forma di celebrazione: “Ricorda il nome di chi è primo, a pieno titolo”. Mentre lungo le strade di Roma, tra i dischi ed i palchi, tra le radio e le rime, tra i microfoni e i beat, i ricordi ed i vuoti, a muoversi è “lo spirito che suona”. Primo Brown e la sua storia, nelle storie di chi resta e spinge la musica ancora.
Helga Marsala
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