“Devo dire tutto quello che ho scoperto? Far crollare il castello?
Ci dobbiamo consegnare al nemico? Rovesciare la piramide, i rapporti di classe?
Cambiare cambiare cambiare?
Cambiare cultura, cambiare tutto, devo cambiare veramente?”
Il Presidente In Todo Modo
(Elio Petri 1976)
Ragazzi e ragazze vestiti per bene – eleganti, abiti lunghi scuri e giacche dal buon taglio – eppure, sotto la scorza dell’efficienza e della ricercatezza, si intravede l’esser camerieri di questi giovani-quasi-ex-giovani – una vita finora spesa a compiacere gli anziani, i loro desideri e la loro forma-di-vita – a obbedire – e il tempo scorre, lava, scava, si mangia ogni cosa, il contesto attorno cambia, si trasforma – ma il/la cameriere/a rimane sempre uguale, affezionato terribilmente alle briciole che gli/le vengono ammannite, alle strategie di contenimento che sono state confezionate per lui/lei, e c’è una strana sospensione ambiguità passività in questo cullarsi nelle forme addomesticate che altri hanno preparato e allestito – il vuoto attende – la rinuncia preventiva a darsi autonomamente una definizione, a costruirsi da sé la propria forma-di-vita, magari anche il proprio condizionamento – la comica affezione al recinto, a un recinto quale che sia (basta che sia predeterminato) – è la rinuncia, in definitiva, anche al fallimento al rischio all’insuccesso, alla potenzialità (di ogni segno) insite in un progetto che devia dal programma prestabilito e preordinato.
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Ci si adagia.
Ci si accomoda.
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In treno da Taranto a Siderno, 7 luglio 2016. La Puglia dimenticata e deteriore (da salvaguardare…) che è anche Mottola, che è l’Italia – palazzi incrostati di impossibili colori tristi, grigio argento verde chiaro crema lavanda – un accumulo fastidioso, petulante, lì dove – in cima alla collina – fino a poco tempo fa c’era la forma a suo modo perfetta e commovente di un provolone bianco – a invece adesso è tutto cheap, scadente, sformato (ciò che era prezioso è stato svenduto o buttato via – come le coperte delle nonne, quindici o venti anni fa), lavori in corso ovunque (regolarmente senza nessuno a lavorare) e negozi cinesi, merce scaduta, chianche divelte, polvere, terreno, cenere, muffa, il suono della decrepitezza come le folate di vento in un desolato paese messicano da spaghetti western – il ritardo perenne, il ritardo come inguaribile forma mentis che modella l’esistenza mutante – e una cosa davvero orrenda come l’incomprensione linguistica (ripetizione: la gente che ti ripete ossessivamente sempre le stesse cose, sempre le stesse, e il doverti ripetere a tua volta).
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“Libero Cinema in Libera Terra”, San Giorgio Morgeto, 9 luglio 2016. Architettura “brutalista” calabrese: uno stile molto specifico, che unisce il faticoso non-finito meridionale a una puntuta decisione nell’organizzazione dello spazio abitativo – ed esistenziale. Un piano magari è stato intonacato – quello superiore no, con i mattoni rossi a vista e gli infissi incistati nella superficie precaria. Sono livelli diversi incastrati l’uno nell’altro, affiancati e montati insieme.
Alla fine, questa architettura urbana riflette una disposizione e una conformazione mentale. È in grado di unire plasticamente arcaico e futuristico – l’annullamento pressoché totale del piacere, e la concrezione di un gusto nuovo e alieno – lamiere, piani inclinati senza alcuna apparente motivazione, infissi minacciosi, porte blindare, cemento armato grigio scuro e superfici ruvide. Un’architettura brutale dunque, ma che contiene un’idea di progettazione talmente brutta e irredimibile da risultare dolcemente affascinante. Laddove il “brutto” assurge a unico sistema di vita e a struttura fondamentale dell’esperienza, c’è qualcosa su cui riflettere attentamente.
Con questi oggetti da abitare (case; ma anche bar e sale ricevimenti) ti stanno imponendo una filosofia, un’ideologia – con radici molto forti, per giunta.
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“Art. 32 La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” (Costituzione della Repubblica Italiana).
“Il luogo viene prima di tutto. La ricerca del luogo è tutt’uno con il cuore della narrazione” (Furio Scarpelli).
“La fine del mondo non voleva dire che tutto il mondo, simultaneamente, sarebbe arrivato al capolinea. Ogni luogo ci arriva a modo suo, con la sua velocità e i suoi intoppi. Si sarebbe potuta inventare una nuova geografia, in base alla vicinanza di ogni singolo luogo all’apocalisse” (Emanuele Trevi, Il popolo di legno, Einaudi 2015, p. 135).
Christian Caliandro
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