Artisti da copertina. Stefano Serretta
Nasce a Genova nel 1987 e durante il liceo comincia a fare graffiti per poi appassionarsi alla letteratura e alla poesia americana, diplomandosi con una tesi su Allen Ginsberg. E poi… Il resto nell’intervista all’artista che ha realizzato la copertina del numero #32 di Artribune Magazine.
Le scritte sui muri l’hanno sempre affascinato e, vista la loro natura spesso effimera, Stefano Serretta ha cominciato a “raccogliere” quelle tracce con la fotografia. Ha frequentato la facoltà di Storia Moderna e Contemporanea e forse da lì nasce il suo interesse per l’analisi di fatti storici che l’artista contamina con fascinazioni personali. “La Storia”, afferma, “sta nei dettagli, e la mia ricerca non è che la sistematizzazione di avanzi”.
Ecco l’intervista all’artista che ha realizzato la copertina di questo numero di Artribune Magazine.
Che libri hai letto di recente?
Sto rileggendo, con molta calma, Le Benevole di Jonathan Littell. Per il resto principalmente saggi.
Che musica ascolti?
Quasi esclusivamente rap, blues o gospel. Dark was the night, cold was the ground di Blind Willie Johnson mi sorprende ogni volta.
I luoghi che ti affascinano.
Quelli in cui posso girare in tuta di felpa.
Le pellicole più amate.
Chappaqua di Conrad Rooks, The Dark Knight di Christopher Nolan, The Devil’s Rejects di Rob Zombie e poi naturalmente Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Su tutti, Mark Lombardi.
Passi da un lavoro sul dollaro zimbabwiano a una rivisitazione della bandiera nera, diventata simbolo del jihadismo, al drammatico 11 settembre 2001. La tua ricerca poggia su questioni sociopolitiche scottanti e attuali. Da cosa nasce quest’interesse?
Prima delle arti visive mi sono dedicato alla Storia. Penso che sia una disciplina che contiene dentro di sé tutte le altre, ed è fondamentale per la comprensione di ciò che ci circonda. Questa passione è strabordata in maniera molto naturale nel mio lavoro. Più che politico lo definirei oplitico. I lavori politici a volte rischiano di essere saggi imperfetti per immagini, più impegnati a cercare una qualche forma di verità piuttosto che limitarsi a metterla in discussione.
Quali sono le tue fonti?
Le più svariate. Cerco sempre di mettere al vaglio fonti diverse – spesso e volentieri in disaccordo tra loro – quando faccio ricerca su un argomento.
Indaghi la realtà italiana – penso al lavoro sulla fabbrica Fibronit di Bari – ma sembri particolarmente interessato alle macrotrasformazioni geopolitiche e agli scenari internazionali.
Non esiste oggi scenario locale che non abbia un suo posizionamento, commerciale e/o politico, nello scacchiere internazionale. Nel mio lavoro in genere, anche quando affronto situazioni site specific, cerco di aprire dal particolare all’universale, piuttosto che viceversa. L’intero pianeta è collegato attraverso una sofisticata rete di connessioni e rimandi. Pensa alle piramidi o alla finanza. Certi argomenti, se trattati in una certa maniera, possono avere la stessa pregnanza a Bari come a Bhopal.
Hai scritto che la storia sta nei dettagli e la tua ricerca non è che la sistematizzazione di avanzi. Puoi spiegarmi meglio?
Quando ho letto Ma gli androidi sognano pecore elettriche? sono rimasto affascinato dalla definizione di palta data da Dick. Credo che il mio lavoro oggi sia quella cosa lì. Metodologicamente parlando, a un primo approccio quasi voyeuristico di fascinazione per un dettaglio – a parer mio abbastanza potente da contenere in sé un significante universale – si somma una fase successiva di analisi in cui questo viene levigato e sintetizzato, spesso sincretizzato per aprire a una pluralità di sguardi possibili. La serie Western Hero(s), che ho iniziato l’anno scorso e che sto tuttora portando avanti, è un possibile esempio, come anche Trillions (2016), lavoro che indaga le fluttuazioni economiche del dollaro zimbabwiano prendendo in analisi il contrasto tra il suo simbolo e il suo valore.
Il tema dell’inquinamento e degli spazi abbandonati ricorre nella tua ricerca. Penso al tuo intervento per il progetto Case Sparse per il quale ti sei confrontato con un geologo.
In quel caso m’interessava indagare cosa c’è sotto rispetto a ciò che viene percepito come paesaggio.
Hai dichiarato: “Ho deciso di dedicarmi alla povertà e quindi all’arte”. Che cosa intendevi?
Diciamo che per un 28enne ci sono modi più pratici e veloci di capitalizzare il proprio talento. Spesso e volentieri l’arte, per chi la fa, produce più debiti che crediti.
Hai realizzato una serie di opere nuove per la tua personale alla Placentia Arte. Su cosa hai lavorato?
Sulla percezione, contraddittoria e schizofrenica, che abbiamo nei riguardi del potere. Spesso siamo portati a pensare che il denaro sia potere quando è fondamentalmente il contrario. Oggi che le utopie marxiane sembrano al capolinea, troviamo modi bizzarri di porci nei riguardi della questione, dando vita a una serie di psicopatologie culturali destinate a rendere sempre più complesso un approccio oggettivo alla faccenda.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Mi sono divertito a rielaborare un concetto su cui sto ragionando da un po’ – le oscillazioni economiche e i paradossi che creano – giocando a dargli un taglio estivo.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #32
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