Cespiti (V). I bambini operosi
La cultura è costituzionalmente anti-sociale. È anche contro la vita – contro questa vita – la vita intesa cioè come società e come economia, come puro bisogno e scambio materiale. Prosegue la serie di minisaggi di Christian Caliandro. Ed è ancora il nostro tempo a essere analizzato.
…la destra liberale aveva vinto la “battaglia delle idee”,
lui l’aveva capito perfettamente, i giovani erano diventati
imprenditoriali, e la caratteristica ineludibile dell’economia
di mercato era ormai riconosciuta unanimemente.
Michel Houllebecq, Sottomissione (2015)
L’arte e la cultura sono tutte “interne” in questo momento – e da troppo, troppo tempo. Che cosa vuol dire? Che ciò che emerge, ciò che ha successo – e viene dunque approvato – è semplicemente e immancabilmente ciò che contiene e riflette tutti i valori di quest’epoca (tardo-capitalismo, neoliberismo, individualismo, infantilismo ecc.).
La ribellione culturale non è minimamente incentivata, neanche a livello di rappresentazione: ciò che rimane è sempre qualcosa di estremamente pacchiano e raffermo; semplificato; rudimentale; l’accettazione è alla base di ogni oggetto (una canzone come un polpettone cinematografico con supereroi che volano e si picchiano da tutte le parti…). L’accettazione voglio dire supina e acritica delle fondamenta e delle precondizioni che regolano questa specie di vita comune, questa specie di guerra civile permanente e strisciante che è il presente: “Che spettacolo da brividi! Che atmosfera!” Davvero: che atmosfera. (Lo scarto, il guizzo, l’evoluzione imprevista e involontaria, lo sperimentalismo, il coraggio, sono tutti da rifondare e da ricostruire – o, molto più probabilmente, da cercare altrove.)
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La cultura è costituzionalmente anti-sociale.
È anche contro la vita – contro questa vita – la vita intesa cioè come società e come economia, come puro bisogno e scambio materiale –, perché è essa stessa vita.
La cultura è la produzione dell’umano, totalmente radicalmente irriducibilmente immateriale.
“Gli abitanti di Calais che, come la prode Clémentine, vanno nel campo con stivali di gomma e zaino in spalla per aiutare, curare e informare, dicono quello che dicono tutti i volontari, di qualsiasi nazionalità, e che in un primo momento mi è sembrato solo un’irritante forma di romanticismo da missionari, ma che, ne sono convinto, corrisponde al vero: la Giungla è, sì, un incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili (…), ma vi si percepisce anche qualcosa di estremamente esaltante: un’energia, una straordinaria fame di vita (…) Molti bianchi del Beau Marais, che vivono e hanno sempre vissuto di sussidi di disoccupazione, si trovano in una situazione forse meno precaria ma per certi versi molto più stagnante, più irrimediabile, e io mi chiedo se questo non incida, in modo consapevole o meno, sul loro risentimento” (Emmanuel Carrère, A Calais, Adelphi 2016, pp. 32-34).
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Ancora sull’insegna SALA DA BARBA a Pozzallo – brunita corrosa ai bordi, attorno alle lettere rosa pallido – il fondo della lastra è reso scuro dall’elettricità e dall’implacabile luce naturale, consumato delicatamente e inesorabilmente, mentre la cornice tutto attorno al materiale trasparente è rugginosa – e l’insegna di questo barbiere sempre chiuso mi tiene incollato qui, in questo paese di mare all’estremo sud dell’Italia, sotto il sole cocente delle undici, senza un vero motivo a parte la sua bellezza – misteriosa e lancinante, umilissima – il fatto che sia così abbattuta e senza riparo, senza rimedio, senza possibilità alcuna di recupero (in chiave modaiola o vintage, per esempio) se non in questa dimensione assoluta, metafisica, in cui sospesa rigetta qualunque commistione con il presente che avanza brutalmente e volgarmente, così diverso e inconciliabile dal punto di vista grafico, materiale, esistenziale – rispetto al mondo da cui emerge come un fantasma solido SALA DA BARBA, insegna sorella.
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(Bambini di acciaio – operosi – riccastri, razza padrona: una società basata sulla cancellazione sistematica di culture e pensieri, di progetti, di tradizioni, votata ipocritamente al nuovo-che-è-vecchio, in cui si installa – un giovanilismo pulcioso – basta smettere di pensare, e ti accorgi che stai rimuovendo con estrema facilità…)
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“Se infatti mi farete morire, non troverete facilmente un altro come me, che palesemente, anche se può sembrare ridicolo a dirsi così, il dio ha applicato alla città come a un grosso cavallo generoso, ma un po’ pigro per la sua stessa grossezza e bisognoso pertanto di esser stimolato da un tafano. Proprio questo è il modo in cui mi sembra che il dio abbia voluto applicarmi alla città, come uno che non smette mai, accostandomi a voi ovunque e per l’arco dell’intera giornata, di stuzzicarvi, e di farvi ragionare, e di contestarvi a uno a uno” (Platone, Apologia di Socrate, Giunti 2016, pp. 79-81).
Christian Caliandro
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