Fotografi d’arte. Giorgio Colombo
Abbiamo incontrato Giorgio Colombo nel suo studio milanese. Un luogo straordinario in cui la storia dell’arte è protagonista. Lo spazio è popolato da librerie, cassettiere dove sono raccolti migliaia di documenti relativi alla sua storia e a quella dell’arte, contemporanea ma anche antica. Prosegue così la nostra serie dedicata ai fotografi d’arte, iniziata con Paolo Mussat Sartor e proseguita con Enrico Cattaneo.
In passato mi hai raccontato che, ancora ragazzo, frequentavi le gallerie più importanti e d’avanguardia.
Era naturale per me frequentare le gallerie, essere aggiornato su quello che facevano gli artisti. Ricordo il lavoro molto avanzato fatto da Guido Le Noci all’Apollinaire, in particolare le mostre di Klein e Fontana. Alla Blu, oltre a Fontana ho visto le Plastiche di Burri, Gorky, all’Ariete Rauschenberg, Johns, Louis, Castellani, Schifano, al Naviglio Sonia Delaunay, Dubuffet, Ceroli. Anche da Schwarz si vedevano, a volte, cose interessanti. In quegli anni le gallerie erano aperte anche di domenica, proprio come i musei.
In seguito con alcune gallerie hai avuto un rapporto molto intenso, in particolare con Franco Toselli, che nel 2000 ha dedicato anche un piccolo libro alle tue fotografie, e poi con Salvatore Ala.
Dopo un’assenza per il servizio militare, ho cominciato a frequentare Toselli, quando ancora la galleria si chiamava De Nieubourg. Purtroppo sono arrivato dopo le mostre di Boetti, Paolini e Fabro. In seguito Toselli ha lasciato il suo spazio su strada di via Borgonuovo alla Olivetti e si è trasferito nel seminterrato, dando il suo cognome alla galleria. Lavoravo all’Olivetti e per me era facile frequentare quasi quotidianamente la galleria. È iniziato cosi il mio lavoro di documentazione di mostre straordinarie.
Qual era il ruolo di Toselli in quegli anni?
Era diventato il punto più avanzato per le nuove proposte, con un’alternanza fra artisti italiani e stranieri, in particolare americani. Le nuove proposte sono poi proseguite nello spazio più ampio di via Melzo con installazioni ambientali. Indimenticabili quella di Michael Asher, che ha tolto l’intonaco a tutto lo spazio della galleria, quelle di Maria Norman, che ha creato, con buio e luce, uno spazio metafisico, proibendo che venisse fotografato, e poi Mel Bochner, Sol LeWitt, Richard Serra. E quindi gli italiani: Boetti, Penone, Agnetti, Paolini. C’è stata una serata con la galleria piena di galline bianche, secondo un progetto di Piero Manzoni, mai realizzato prima: praticamente un Achrome vivente. Importanti le performance: quelle di Joan Jonas, Trisha Brown, Giuseppe Chiari, Pier Paolo Calzolari.
Un lungo elenco di artisti entrati nella storia…
Il libro a cui facevi riferimento era il catalogo di una mostra che Franco mi ha chiesto quando ha riaperto il nuovo spazio in via Guerrazzi. Il libro conteneva il riassunto per immagini di trent’anni della sua attività.
E Salvatore Ala?
Ha aperto il suo spazio anni dopo, seguendo le piste che Toselli aveva indicato. Anche da lui sono passati artisti molto interessanti. Le installazioni ambientali di Eric Orr, Wheeler, Matta-Clark, Jene Highstein. Una grande installazione di Marisa Merz che ha coinvolto tutto lo spazio della galleria, cantine comprese, e quindi le prime azioni teatrali di Bob Wilson, i concerti di Philip Glass, Meredith Monk, gli artisti dell’Arte Povera. Sono stati veramente anni fantastici. Ho documentato tutto.
Sei stato per molti anni il fotografo ufficiale della Collezione Panza di Biumo. Raccontaci la storia di questo rapporto. Cos’ha significato per te?
Giuseppe Panza era già casualmente nelle mie fotografie, scattate durante le inaugurazioni delle mostre. Conoscevo la sua collezione attraverso le fotografie di Ugo Mulas. Poi l’occasione del primo incontro. Franco Ravedone mi aveva chiesto di partecipare alla realizzazione di un suo lavoro. Dovevo fotografare lui che guardava il collezionista. Dieci i prescelti: in casa loro, tra le opere della loro collezione, come se anche loro fossero un’opera. Le riprese che riguardavano Panza erano programmate nella villa di Biumo, sede di una parte della sua immensa collezione. Per me è stato un momento di grande emozione, la scoperta di nuovi autori. Tutta l’arte americana, che avevo visto nelle foto di Mulas, in particolare la Pop Art, Rothko, non erano più esposte.
Com’era cambiata la villa?
Da poco erano state installate le opere dell’Arte Ambientale, Minimal e Concettuale: Turrell, Flavin, Irwin, Nordman, Judd, Nauman, Highstein, Dibbets, LeWitt, Morris. Ho subito chiesto a Panza di poter fotografare gli ambienti, in particolare mi interessavano quelli dove la luce era protagonista. Così sono andato più volte a Biumo in totale solitudine a fare le riprese. Ho poi proposto a Casa Vogue di pubblicare il servizio. Contrariamente alla limitazione dello spazio, strettamente legata allo spirito della rivista, ne è uscito un servizio di ben diciotto pagine con più di sessanta fotografie. Panza ne fu talmente entusiasta che comprò tutta la tiratura della rivista, affermando che era la prima volta che vedeva gli ambienti fotografati così bene. Da li è iniziata una collaborazione durata oltre venticinque anni, che dura tuttora nella gestione dell’archivio fotografico di tutta la sua collezione.
Nel tuo studio c’è molto materiale su Alighiero Boetti, con il quale hai sviluppato, negli anni, una profonda amicizia.
Ho incontrato prima il suo lavoro, in particolare una Dama che aveva Toselli. Era il 1970. Ho chiesto di comprarla. Il prezzo era nelle mie disponibilità: 50mila lire. Purtroppo l’opera era già stata venduta. Franco mi ha proposto di chiedere a Boetti di realizzarne una per me, e così è stato. Alighiero era molto contento che un giovane comprasse un suo lavoro: io avevo venticinque anni, lui trenta. Tempo dopo mi ha consegnato la Dama, molto più bella di quella che avevo visto. Mi ha detto che non voleva soldi, ma che avrebbe preferito che fotografassi il suo lavoro.
E hai accettato…
Ho accettato con entusiasmo, e da quel momento ho documentato quasi tutto. Ancora adesso, quando me ne capita l’occasione, continuo a farlo. Ho amato talmente tanto il suo lavoro, che ho raccolto nel tempo molte sue opere. In alcuni casi ne sono nate alcune in collaborazione. È veramente inspiegabile come sia stato trascurato in vita e come invece, oggi, il mercato desideri ardentemente la sua opera. La sua intelligenza e la sua amicizia mi mancano molto, come quelle di Luciano Fabro.
Hai avuto rapporti con la Biennale di Venezia?
La mia prima Biennale risale al 1962: solo in visita, niente fotografie. La prima in cui ho documentato le opere, per mio uso personale, è stata quella del 1964 con l’arrivo della Pop Art, del New Dada e non solo. In modo professionale, ho continuato fino al 2003, salvo l’edizione del 1968, dove è esplosa la contestazione, sedata anche in modo violento dalla polizia. In tutto, quarant’anni. Poi la manifestazione si è allargata troppo negli spazi e anche nei contenuti, così ho smesso. Chissà che un giorno non riprenda ad andarci.
Cosa è cambiato negli ultimi anni? Come si svolge ora il tuo lavoro?
Negli ultimi anni è cambiato il sistema dell’arte: è più difficile fare le scelte di nuovi artisti e di nuove opere. Più business e meno evoluzione verso nuove strade, molta fotografia, che diventa decorazione. Il mio lavoro non è cambiato gran che nella sostanza. Ci sono stati solo dei cambiamenti tecnologici: dalla pellicola alla scheda di memoria; dalla camera oscura al computer, alla stampa digitale. Il metodo di ripresa è quasi lo stesso. Gran parte del mio tempo ora è dedicata all’archivio. Nel tempo restante, mi guardo intorno e registro quello che sembra interessante. Se il lavoro di qualche giovane mi colpisce, cerco, per quanto mi è possibile, di sostenerlo economicamente, comprando le sue opere e mettendole insieme a quelle degli artisti venuti prima, nei quali ho creduto.
UN BIBLIOMANE RIGOROSO
Sui pochi spazi liberi delle pareti dello studio di Giorgio Colombo ci sono opere, manifesti, immagini. C’è il poster di Shaman Showmen, la prima mostra di Alighiero Boetti alla galleria De Niebourg. Era il 1968. Quel manifesto è stato oggetto di una ricerca durata quarant’anni e finalmente è arrivato. Colombo è riuscito ad acquistarlo da una persona che lo aveva a sua volta comprato a un’asta. Non è firmato, ma al fotografo milanese poco importa. Il senso della sua collezione e del suo archivio non è quello di mettere insieme dei feticci, ma di raccogliere dei documenti. E qui di documenti ce ne sono davvero tanti, molti preziosi, introvabili. Intere raccolte di riviste. Per la maggior parte riguardanti l’Arte Povera, ma non solo. Inoltre la passione per l’arte antica continua a essere viva.
Tutto è registrato, archiviato, perfettamente ordinato, con criteri degni di una biblioteca tedesca. Tutti gli scaffali sono numerati, come anche le cassettiere che custodiscono inviti, locandine, poster. Un ordine gestito con l’ausilio del computer, che Colombo inizia a utilizzare in epoca non sospetta, nel 1984, anche in questo un antesignano.
Tra gli inviti più interessanti, quello con l’erba finta per la mostra di Pier Paolo Calzolari allo Studio Bentivoglio di Bologna, del 1967. Dello stesso anno è anche quello di Boetti per la mostra alla Christian Stein, fatto come una sorta di scheda. Sempre per una mostra da Stein è l’invito costituito da una tavoletta di legno con applicata una targhetta verde, firmato da Giulio Paolini.
Di Boetti c’è moltissimo. Il Libro dei fiumi (1977), costato all’artista molti anni di lavoro, che oggi è una rarità assoluta. E ancora più raro è il suo Dossier postale, che Colombo possiede in un’edizione perfetta, completa.
Quando all’inizio degli Anni Sessanta parte per il militare tra Siena e Roma, mette insieme moltissimi libri, alcuni dei quali sono anche andati perduti. Suo commilitone, addirittura compagno di letto a castello, è Ettore Spalletti, con il quale a Roma affitta una piccola casa in via di Panico, allora un quartiere malfamato. Per Giorgio era già un luogo di raccolta.
La passione per i libri comincia da ragazzo, ma il vero inizio, consapevole, della raccolta di materiali legati all’arte contemporanea è negli Anni Sessanta inoltrati, quando raccoglie i volumi legati alle opere che fotografa per avere su di esse quante più informazioni possibili. Talvolta i diversi libri non offrono le stesse notizie sulla medesima opera. A questo punto si apre una ricerca precisa, filologica, per verificare l’attendibilità delle stesse. Colombo scrive, telefona agli artisti, quando è possibile, per avere notizie esatte.
Quando parla dei suoi materiali, Giorgio Colombo si entusiasma, si illumina. La ricerca di quanto gli manca è ancora un impegno precipuo, una caccia quotidiana. Un esempio? Il manifesto mortuario di Gino de Dominicis, ormai rarissimo e preziosissimo. Ma battendo tante piste, chissà che prima o poi non gliene capiti uno tra le mani.
Angela Madesani
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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