REALITY E TALENT
Negli ultimi anni, mentre il cinema badava soprattutto a produrre blockbuster che potessero riportare in sala famiglie e teenager, la televisione a livello internazionale ha provato a costruirsi una nuova identità. Se dal lato dei prodotti scripted la cosa è stata ampiamente dibattuta grazie al successo delle serie tv, sul fronte unscripted, ovvero quello dei programmi televisivi, la storia è invece molto meno nota.
A partire da quella prima celebre edizione olandese di Big Brother datata 1999, l’intrattenimento televisivo ha dimostrato di prediligere in misura sempre maggiore contenuti che potessero offrire al pubblico uno sguardo sul mondo reale e sulle persone comuni. Dapprima con i reality show e il definitivo abbattimento della distinzione tra pubblico e privato. Poi con i talent show, che ci hanno sostanzialmente detto che chiunque possedesse un qualsivoglia talento poteva finalmente diventare un vincente. Ora invece è giunto il momento dei cosiddetti factual e più in generale di tutti quei programmi che escono dagli studi televisivi per raccontarci di storie e persone nel loro vissuto quotidiano, con schemi di storytelling e di spettacolarizzazione mutuati dal cinema e dalle serie televisive più che dal classico documentario.
L’ERA DEI FACTUAL
L’amore di una coppia affetta da nanismo, l’esperimento di un capo d’azienda che si infiltra tra i suoi dipendenti, la vita di un gruppo di giovanissime ginnaste: oggi sembra che ogni storia meriti di essere raccontata in televisione e tutte, passando per il montaggio, finiscono con l’adattarsi alla medesima sintassi narrativa, con l’eroe, gli antagonisti, le prove da superare e l’immancabile lieto fine. Siamo di fronte a un racconto della realtà che potremmo quasi definire allegorico. Una lettura semplificata del mondo che il pubblico oggi sembra richiedere più di ogni altro contenuto, forse proprio come risposta alle complessità e alle insicurezze figlie di questi anni.
Il programma più interessante, e per certi versi estremo, di questa nuova tendenza arriva dal Regno Unito e si chiama Hunted. Andato in onda su Channel 4 e rinnovato per una seconda stagione, è stato definito dalla critica come “uno dei factual più innovativi visti da molto tempo a questa parte”, “la dimostrazione che la televisione ha ancora tanto da offrire”, ma anche come “lo scherzo televisivo dell’anno”. In sintesi si è trattato di un esperimento in cui quattordici concorrenti (persone comuni) hanno accettato di provare sulla propria pelle cosa significasse diventare fuggitivi e dover cercare di sparire nel nulla mentre un team di professionisti dell’intelligence britannica dava loro la caccia, avendo un tempo limite di ventotto giorni per trovarli e potendo contare su tutte le più avanzate tecnologie di intercettazione, pedinamento e sorveglianza attualmente disponibili.
UNA SERIE POST-SNOWDEN
La grande riflessione dietro il programma ruotava ovviamente intorno a un tema molto attuale come quello del delicato equilibrio tra sicurezza e privacy in un mondo post-Snowden che attualmente conta milioni di videocamere installate lungo le strade, ma che al contempo restituisce risultati pessimi quando si tratta di fermare i terroristi.
Se all’attinenza con l’attualità aggiungiamo una certa storica predilezione molto british per i racconti distopici, si può intuire perché Hunted al pubblico inglese sia piaciuto e a chi scrive sia parso molto ben confezionato. In questo caso il mood narrativo di riferimento è stato quello dell’action thriller. Nella scelta delle musiche, dello stile di montaggio, delle grafiche e dei campi di ripresa, gli inglesi hanno sapientemente attinto dai migliori spy movies degli ultimi anni (Bourne Identity su tutti). Le cose più interessanti sono sembrate da un lato il racconto in presa diretta del lavoro di una vera unità di intelligence e dall’altro il progressivo sfinimento psicologico dei fuggitivi (tra cui diverse coppie), sempre più sull’orlo di vere e proprie paranoie persecutorie.
In Spagna e negli Stati Uniti stanno già lavorando alla produzione delle loro versioni locali di Hunted. Aspettiamo di vederlo in Italia.
Alessio Giaquinto
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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