Nelle botteghe degli artisti del passato, l’uso di forme e stilemi era un fatto condiviso. Tutti attingevano come in un magazzino a modelli e pose che sostanzialmente si differenziavano solo nelle variazioni. La differenza tra un artista “maggiore” e uno “minore” era nell’esecuzione e nella capacità di formulare variazioni. Una specie di “comunismo delle forme” ante litteram, prima ancora della sua teorizzazione fatta da Nicolas Bourriaud, costituiva il filo rosso dell’iconografia: basti pensare all’età barocca o alle pose neoclassiche.
Poi, con la modernità tutto cambia. Un certo pathos dell’originalità investe l’artista, che adesso dovrà vedersela solo col mondo e con le forme. Eppure, in controtendenza col suo tempo, Manet rompe col mito del genio e si mette a “copiare” Goya, Velázquez, Tintoretto, Giorgione.
Poi con Duchamp l’artista non sarà più concepito come colui che crea, ma come colui che sceglie. Subito dopo, Brecht riscatterà il lungo sonno del “comunismo delle forme” con L’Opera da tre soldi, dove prende in prestito 25 versi del poeta francese François Villon. Accusato di plagio, fu difeso da Karl Kraus, per il quale la citazione di Brecht, per il modo in cui era stata contestualizzata, era più “originale” del testo citato.
Ecco la questione decisiva: come capire quando la citazione “supera” l’originale? Quando Sherrie Levine ripropone l’orinatoio di Duchamp, lo supera, lo riattualizza? Obey va oltre Warhol quando ne riprende letteralmente il procedimento formale? E che dire di Apollinaire, che nei Calligrammes rilancia la forma “elastica” della poesia di Mallarmé e Cendrars? Cosa fa, copia? Gli esempi abbondano.
La questione della citazione, o del “comunismo delle forme”, apre un problema di fondo legato alla “proprietà intellettuale”. Per Brecht l’uso delle forme del passato costituiva una pratica che smantellava l’autorità del “genio” di ascendenza borghese, che fa di ogni cosa un possesso esclusivo. In sintonia con Proudhon, per Brecht la proprietà di una forma era un furto. Nella sua difesa dell’Opera da tre soldi, Brecht suggerisce che le forme sono un “bene comune”, inalienabile, come le cantate popolari, le quali man mano che attraversano le generazioni subiscono metamorfosi che le rinnovano, e per questo tutti possono disporne.
Il problema, semmai, come affermava Guy Debord, è un altro: la forza dello sviamento della citazione, che libera la forma dal suo significato originario, per riaffiorare come se apparisse per la prima volta. Una specie di velocità di liberazione dalla forza di gravità della storia. Ma non tutti gli artisti ci riescono. E a volte la ripresa di medesimi schemi formali ha il volto di un feticcio imbalsamato. Tuttavia, come recita una scritta sul muro di una scuola: “Copiare è bello” (per superare il diktat dell’esame).
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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