Sentite qui: “Ciberspazio: il regno dell’informazione allo stato puro, che si riempie come un lago e diffonde messaggi che trasfigurano il mondo fisico, decontaminano il panorama naturale e urbano, lo riscattano, lo salvano dalle ruspe dell’industria della carta, dal dumo dei motori dei veicoli che trasportano la posta, dalle emissioni degli aerei degli aeroporti intasati, dai tabelloni pubblicitari, dalle costruzioni pretenziose e deturpanti, da code di ore sulle autostrade, agli sportelli, nelle metropolitane soffocanti… da tutte le inefficienze, gli inquinamenti (chimici e informativi) e le alterazioni che si verificano mentre si trasferisce l’informazione attraverso, sopra e sotto la vasta e accidentata superficie della terra appiccicandola a cose – a pezzi di carta come al cervello – invece di lasciarla volare libera nella soffice grandine di elettroni che costituisce il ciberspazio”.
Cito per intero questo lirico brano da Michael Benedikt (Cyberspace, 1991) perché è proprio confortante, ogni tanto, osservare come attecchiscano le illusioni ideologiche, come proliferino, prendano il sopravvento e come, inevitabilmente, e direi per fortuna, si fracassino in modo clamoroso contro i bastioni della realtà, per virtuale che sia. Un quarto di secolo fa, Benedikt e parecchi altri reduci, anche nostrani, di sbronze pseudo-sociologiche ad alta gradazione politica hanno cercato di venderci la favola di uno spazio elettronico “liberato” e “anarchico” in cui il greve mondo industriale si sarebbe “trasfigurato” in un luminoso futuro di ubiquità e leggerezza… A leggere cose simili, ci si sente quasi contenti che esistano la spam e i pop up perché – anche se sono orrendamente fastidiosi – perlomeno sono serviti a smentire, in modo molto più perentorio di qualunque ragionamento teorico, questi vaneggiamenti tra il misticismo parafilosofico e lo slogan pubblicitario.
Molta grandine, e non tutta soffice, è piovuta sui neuroni degli euforici tecnodopati, dei cyberbulli della prima ora, dei cowboy del web, degli immigrati – nativi – barbari – oriundi – aborigeni – pigmei, e anche – alieni digitali, e oggi i risultati sono evidenti. A parte il luogo comune, ma vero, che il consumo di carta è aumentato proprio a seguito del diffondersi dell’integrazione digitale, gli sprechi, “le inefficienze e gli inquinamenti”, invece di sparire, sono divenuti del tutto ingovernabili (Pacific Trash Vortex docet); così, il famigerato “ciberspazio” è evoluto più che altro in un consolatorio Kinderheim di massa, e ci sarà pure un motivo se, alzando lo sguardo sui patetici smartphone su cui son proni i vicini di vagone, si scopre che la connessione allo Zeitgeist è stata sostituita da Candy Crush Saga.
Non è per essere vendicativi, per carità, però l’idea che Benedikt (e soci) siano magari disoccupati non farebbe proprio tanto dispiacere – come neanche ne fa la traballante sorte di Wired, (sedicente) “Bibbia di internet”, ovvero mensile di marketing travestito da magazine sulle “idee che cambiano il mondo” (sic!).
Che dire infatti di figure come quella del suo (ex) direttore Chris Anderson, uno che, per una mezz’oretta di conferenza sulla “freeconomy” (l’economia gratuita che caratterizzerebbe la Rete), monumentale panzana neocapitalista, riesce però, con solido pragmatismo statunitense, a farsi pagare 30mila dollari?
Gli uomini dell’antichità si sentivano semplicemente uomini; nel Medioevo li giudicarono troppo grandi per loro e preferirono definirsi dei nani, sia pur seduti sulle loro spalle; oggi ci sarebbe da chiedersi cosa penserebbero di noi quei giganti del passato che crediamo di esserci lasciati alle spalle.
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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