Terremoto e ricostruzione. Vogliono trasformare Amatrice in un outlet?
Sulle scelte strategiche per la ricostruzione delle cittadine devastate dal sisma del 24 agosto il Governo sembra aver da subito ingranato la quinta. Senza dar tempo neppure al dibattito di comporsi e svilupparsi.
DIFFERENZIARSI INNANZITUTTO
Il Governo va di corsa. Così di corsa da essere più veloce perfino del sempre immancabile dibattito urbanistico, magari un po’ rallentato dalla circostanza agostana. E allora proviamo a innescarlo noi, qui su Artribune, questo dibattito. Proviamo a discutere – ospitando architetti, designer, urbanisti, antropologi, docenti, intellettuali, politici, pubblici amministratori, restauratori – su quale potrebbe e dovrebbe essere l’esito meno traumatico possibile e più ricco di opportunità possibile per la ricostruzione di Amatrice, di Arquata del Tronto, di Accumoli e dei relativi borghi.
Il Governo pare aver già deciso, dicevamo. Nei primissimi giorni, nella necessità anche plastico-politica di doversi differenziare dai precedenti esecutivi che hanno avuto a che fare con eventi simili, si è subito esclusa a priori la possibilità di fare ricorso alla realizzazione di new town, ovvero di nuove città più o meno limitrofe alla vecchia considerata troppo malandata per essere restaurata o ricostruita. Non si è riflettuto sulla storia (anche molto antica) di questa soluzione, non si è riflettuto sulla sua storia moderna (ovviamente non si può non riferirsi a Gibellina, nel Belice): si è direttamente e unicamente pensato a L’Aquila, come se un evento sismico drammatico potesse essere confrontato con l’evento sismico immediatamente precedente e basta. Come se il micidiale duo Bertolaso/Berlusconi avesse inquinato per sempre il concetto stesso di new town.
TRE ALTERNATIVE
Tre sono le scelte possibili per una ricostruzione post sismica. Costruire “dov’era com’era” (un motto nato oltre cent’anni fa a Venezia quando si sbriciolò il Campanile di San Marco), costruire “dov’era ma non com’era”, costruire da un’altra parte e dunque fare una nuova città che della vecchia conservi solo abitanti e nome. Le new town però non sono solo quelle di Berlusconi e dei costruttori sciacalli che ridevano nella notte sentendo la terra tremare e immaginandosi il fiume di denaro della ricostruzione; new town è ad esempio anche Noto, importante città siciliana che visse il terribile terremoto del 1693 e che nei decenni successivi venne ricostruita altrove con una pianta ortogonale iperpianificata e con palazzi e monumenti barocchi da togliere il fiato, che nel 2002 sono diventati patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Intanto la vecchia Noto, a 6 km dall’attuale, si può visitare come fosse un’area archeologica. Paradossalmente oggi i soliti noti (Italia Nostra, Tomaso Montanari…), che giustamente difendono e tutelano Noto e gli splendori del Tardo Barocco Siciliano, sono gli stessi che osteggiano le new town e che vedono come fumo negli occhi il costruire dov’era ma non com’era. Se tre secoli fa ci fossero stati loro a condizionare l’opinione pubblica, Noto e il grande barocco siciliano non sarebbe esistito: si sarebbe continuato a costruire o a ricostruire imitando lo stile precedente in una continua coazione a ripetere antistorica e kitsch.
RACCOGLIERE UNA SFIDA TRAGICA
Naturalmente non c’è solo Noto, Catania, Ragusa, Caltagirone. C’è piuttosto in generale una filiera di trasformazione urbana che, gioco forza, scaturisce dalle tragedie. I cataclismi naturali (come i terremoti) o artificiali (come i bombardamenti), se da un punto di vista umano e umanitario sono tragici, dal punto di vista urbanistico e architettonico sono una sfida da cogliere (o magari da non cogliere), uno stimolo alla stratificazione, un’asticella da superare in termini di pianificazione e creatività, un’opportunità di trasformazione.
Quanto patrimonio l’Italia si ritrova ad avere “grazie” a tragedie, saccheggi, incendi, terremoti, guerre o devastazioni? Oggi sembra tutto d’un tratto che il Paese – o per lo meno la parte più rumorosa di questo – abbia deciso di non produrre più novità, di non sperimentare più, di restare immobile, di non raccogliere le sfide che la natura o gli eventi lanciano. Come se questa epoca non possa in alcun modo lasciare traccia di sé nella storia del Paese. Una condizione cui ci siamo abituati, che ci sembra normale.
VOGLIAMO TRASFORMARE AMATRICE IN UN OUTLET?
“Ad Amatrice il paese non c’è più”, disse il sindaco a caldo pochissime ore dopo le prime scosse devastanti. “Quel poco che è rimasto in piedi non è agibile e deve essere abbattuto”, ha confermato qualche giorno dopo. Ad Amatrice, insomma, si ricomincerà da zero, almeno per quanto riguarda il centro storico. Questo ricominciare da zero ha generato un ragionamento sul da farsi (magari anche parlandone con chi il paese lo abita, ne costituisce i flussi, i gangli, le attività produttive) oppure si è solo andati di fretta dietro al Primo Ministro desiderosissimo di intestarsi la buona riuscita della ricostruzione in tempo per le votazioni del Referendum di ottobre? Possibile che dopo poche ore già si sia deciso quale strategia intraprendere?
Da subito si è detto a più riprese che i paesi sarebbero stati costruiti dov’erano. In una ridda di dichiarazioni politiche che hanno visto protagonisti il Primo Ministro, il Ministro delle Infrastrutture ma poco o punto – guarda caso – il Ministro della Cultura. Più di recente, poi, si è cominciato ad aggiungere anche il secondo elemento di quella frase coniata a Venezia: “com’era”. Si sta andando – senza alcun dibattito, ribadiamolo – nella direzione di una ricostruzione in stile di paesi completamente devastati. Quale sarà lo scenario? Amatrice completamente rasa al suolo, calcinacci portati via dai camion, analisi delle foto e poi ricostruzione del paese esattamente com’era prima. Una copia, un outlet, una scenografia. Un po’ come fanno i cinesi che vengono in Italia o in Provenza, individuano qualche borgo bellissimo e poi lo ricostruiscono pari pari in qualche provincia remota a beneficio del turismo interno.
QUAL È L’OBIETTIVO?
Si può optare per una ricostruzione kitsch, si può optare per tenere alla larga architetti, urbanisti, progettisti, idee nuove (che vadano all’estero a cercare qualche lavoro, in Italia al massimo si scopiazza il passato), si può decidere di realizzare paesi “in stile”, paesi fotocopia, paesi come nulla fosse accaduto, si può girare le spalle al fatto che dopo i terremoti l’Italia ha saputo storicamente ricostruirsi nuova e perfino più bella di prima.
Tutto si può fare, ma dietro c’è una strategia? C’è un ragionamento? C’è un pensiero e una visione? O c’è solo la fretta di fare e la necessità politica e di consenso di intraprendere la strada più facile?
Massimiliano Tonelli
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