Artisti da copertina. Parola a Davide Allieri
Intervista all’autore della copertina del nuovo numero di Artribune Magazine. L’artista bergamasco gioca sui concetti di vuoto, mancanza e sottrazione, dando vita a opere non costrette nei limiti dei media scelti.
Davide Allieri nasce a Bergamo nel 1982 e durante l’Accademia inizia la sua ricerca in cui tenta, tramite gesti ritualizzati, disegni e impronte, di “produrre” oggetti con la polvere di grafite, materiale che ancora oggi lo accompagna. Rimane poi affascinato dalla scultura e dal calco. È fortemente influenzato dalla cultura classica con la quale indaga – con una pulizia formale quasi maniacale – il vuoto, la mancanza, la negazione, l’anti-narrazione, il frammento, attraverso lo sviluppo di “supporti mancanti”, “mancati” e immagini negate. Perché, ci racconta, “avevo bisogno di sottrarre, decostruire piuttosto che costruire, una sorta di processo inverso, in negativo”.
Che libri hai letto di recente?
Sto leggendo Lettere a Theo di Vincent van Gogh, L’intervallo perduto di Gillo Dorfles, L’insieme vuoto di Federico Ferrari e L’arte non evolve di Gabriele Guercio.
Che musica ascolti?
Ho sempre ascoltato rap dell’East Coast: MOP, Mobb Deep, Wu Tang Clan, Onix. Ora apprezzo molto il Grime UK.
I luoghi che ti affascinano.
Le metropoli. Soprattutto quei luoghi dove sono presenti, a livello architettonico e culturale, grandi incongruenze. M’interessano anche le rovine e gli spazi abbandonati.
Le pellicole più amate.
Sicuramente 8 ½, l’Arca Russa, Videodrome, Velluto Blu, La doppia vita di Veronica e Melancholia.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Artisti con forti visioni: Matthew Barney, Pierre Huyghe, Carol Bove, Rachel Whiteread, Danh Vo, Robert Overby. Poi David Lynch e Stanley Kubrick. Citerei anche Carmelo Bene e Gino De Dominicis.
Hai iniziato indagando l’identità attraverso il tuo corpo, lasciandone testimonianza con il video, la fotografia e l’installazione.
Durante l’Accademia sperimentavo molto con il mio corpo, tentando, tramite gesti ritualizzati, di produrre oggetti con la polvere di grafite. Stavo molto attento a documentare tramite il video e la fotografia. Ricordo ancora il primo lavoro: mordendo un portaimpronta odontoiatrico con del grasso di grafite ghiacciato, lasciavo un segno nella mia bocca e un’impronta dei miei denti sull’oggetto.
Poi sono arrivati la scultura e il calco…
Col tempo non ho più ritenuto necessaria una congruenza narrativa di eventi. Iniziava a stimolarmi sempre di più la questione del “negativo” come opera e non più come residuo di un processo fisico. Ricordo che fui molto influenzato dal libro La somiglianza per contatto di Georges Didi-Huberman. Da qui il mio interesse per la forma in negativo, l’impronta, l’immagine negata e il vuoto.
La tua ricerca è stata sempre accompagnata da un materiale, la polvere di grafite, che usi ancora oggi.
La polvere di grafite è un elemento classico nella storia dell’arte. M’interessa la simbologia associata alla polvere, da quella cristiano-cattolica a quella alchemica.
La cultura classica sembra essere nel tuo Dna artistico. Mi vuoi raccontare da cosa nasce l’interesse per i codici classici e lo studio della storia dell’arte?
Sono interessato ad attingere dalla storia. Partendo dal presupposto che la storia non esiste, ma ne esistono infinite. Mi piace l’idea di tracciare connessioni temporali senza un’apparente arbitrarietà. Rimescolare le epoche, manipolare gli eventi vissuti, distorcere la storia sono azioni che caratterizzano la mia visione.
Scultura, disegno, fotografia, installazione, performance. Cosa li accomuna?
Tendenzialmente non faccio differenza tra i media che utilizzo. Mi piace non avere limiti creativi e poter decidere di utilizzare il medium espressivo che meglio esprime la natura di ogni progetto. Tutti sono accomunati da un unico filo rosso che seguo. Poter lavorare con strumenti diversi consente una maggiore libertà d’azione e duttilità, e permette di presentare lavori che dialogano con lo spazio nel modo migliore.
Stai lavorando a un progetto performativo “itinerante”. E anche questa volta ci sono chiari riferimenti alla classicità. Di che cosa si tratta?
Le azioni si svolgeranno in luoghi come collezioni, pinacoteche e gipsoteche. Sto lavorando con un performer che sarà il protagonista di un progetto legato a un “ballo della morte”. L’esaltazione del gesto, la creazione, il rito e il tempo sono elementi che caratterizzano il progetto che ha l’obiettivo di mettere a confronto epoche differenti.
A ottobre inauguri una mostra nella storica Fonderia Battaglia di Milano. Ci puoi anticipare cosa troveremo?
Il vuoto sarà al centro delle opere che presenterò. Lavorerò su diversi livelli, dove la “leggerezza” e la “pesantezza” dialogheranno. Ci saranno una serie di installazioni e alcune opere grafiche.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
La fotografia che ho creato è ispirata al progetto itinerante che sto realizzando. L’immagine è poco chiara ed evocativa per certi versi. Può ricordare una figura legata al terrorismo islamico, al KKK o alle gang dei sobborghi metropolitani, oppure a un black bloc. Mi piaceva l’idea di una figura simbolo del nostro contemporaneo e di un’umanità negata.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
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