Fertility Day. Le buone intenzioni (e i cattivi cliché) della Lorenzin
Ci occupiamo spesso di comunicazione, di pubblicità, di campagne politiche e sociali. Là dove l’intuizione di un creativo, il messaggio di un committente, la sensibilità del target di riferimento e a cappello di tutto l’immagine, devono combinarsi al meglio. In certi casi, però, qualcosa non funziona. Come per il Fertility Day ideato dal Ministero della Salute. La campagna a favore delle nascite non è piaciuta, soprattutto alle donne. Proviamo a capire perché. E facciamo un confronto, ad esempio, con uno spot danese, riuscitissimo...
CAMPAGNE SOCIALI, OLTRE LE MIGLIORI INTENZIONI
Quando una campagna sociale si può considerare sbagliata, debole, inefficace? Al di là degli obiettivi, delle strategie creative, delle piattaforme individuate, ciò che conta è la capacità di sedurre, incuriosire, creare processi positivi di identificazione e al contempo sfidare gli stereotipi, capovolgendo il luogo comune. Si può utilizzare il registro dell’ironia, del paradosso, della sorpresa, oppure scegliere la via della testimonianza realistica o reale. Si può puntare sul tono drammatico, sullo shock, oppure su quello gioviale, che rassicura. L’essenziale è muovere emozioni, toccare corde intime capaci di suggerire valori collettivi. E a volte è sottile la distanza tra una soluzione provocatoria, che scuota e veicoli il messaggio in modo non convenzionale, e l’effetto impopolare, respingente. In quest’ultimo caso il messaggio si arena e la campagna rischia di trasformarsi in boomerang.
Se si parla di comunicazione sociale (e non commerciale) non funziona la storia del “purché se ne parli”, non funziona la scusa del “comunque è a fin di bene” e il canale della sensibilità collettiva ha un peso specifico particolare. Si tratta di temi cadi, che vanno dritti al cuore delle persone. E tutto, come sempre, passa per la forma, il linguaggio, la grammatica visiva, l’incisività verbale e la delicatezza di fondo, l’intelligenza e l’immedesimazione. Se si sgarra, non c’è “buona intenzione” che tenga.
LA CICOGNA E LA CLESSIDRA. LE GRAFICHE DELLA DISCORDIA
A esplodere letteralmente nelle mani di creativi e committenti è stata, in queste ore, la campagna per il #fertilityday, iniziativa del Ministero della Salute, voluta dalla Ministra Beatrice Lorenzin, fissata per il prossimo 22 settembre e lanciata in anteprima il 31 agosto. Il relativo hashtag è balzato subito in cima alla classifica dei Trend Topic di Twitter, mentre anche su Facebook si animava il dibattito, con una serie di critiche corali, a volte durissime. Qualcosa non ha funzionato.
A parte l’inglesismo inutile e ipocritamente accattivante, l’operazione ha rivelato un residuo di retoriche retrò, che, con una comunicazione azzeccata, si sarebbero ridotte al minimo, spostando l’attenzione su un piano differente, empatico, propositivo, innovativo. La campagna ministeriale – sfornata dall’agenzia Mediaticamente, vincitrice di un bando per 113mila euro complessivi – ha invece puntato tutto sulla necessità di fare figli. Stop. Farne tanti, farne presto, farne per forza.
Il Piano Nazionale della Fertilità, spiega il Ministero, nasce “per mettere a fuoco con grande enfasi: il pericolo della denatalità nel nostro Paese. La bellezza della maternità e paternità. Il rischio delle malattie che impediscono di diventare genitori. L’aiuto della Medicina per le donne e per gli uomini che non riescono ad avere bambini”. Intendiamoci: nulla di sbagliato in questi propositi, anzi. Ben vengano convegni, opuscoli, incontri, assistenza e informazioni, come previsto. Anche in considerazione dei dati allarmanti relativi all’Italia, con una media – tra le più basse d’Europa – di 1,37 figli per donna.
Ma con quale “veste mediatica” viene restituito tutto ciò? Un sito, non più visibile – forse oscurato, forse in crash –, ma che conterrà, tra le altre cose, un Fertility Game, un gioco di coppia in cui si guadagnano punti se si indovinano i comportamenti corretti per avvicinarsi alla gravidanza.
E poi una serie di manifesti diffusi sui social, responsabili delle critiche più feroci. Immagini semplici e slogan diretti: “Datti una mossa, non aspettare la cicogna!” (di corsa, per carità!); “La bellezza non ha età, la fertilità sì” (con tanto di fanciulla che regge una inquietante clessidra); “Un figlio è sempre possibile, anche durante la malattia” (ok, ma è davvero necessario?); “Genitori giovani, il modo migliore per essere creativi” (e se invece, a 20/30 anni, la creatività fosse un fatto di viaggi, di studio, di carriera?); “La fertilità è un bene comune” (com’era la storia del “corpo è mio e lo gestisco io?”)… E via così, tra banalità polverose, moralismi e molta noia.
I FIGLI? LIBERE DI NON FARNE. ED ESSERE FELICI LO STESSO
Buoni gli intenti, a voler evitare catastrofismi e retoriche contrarie. La Ministra sceglie di combattere il problema della denatalità, esattamente come avviene in altri Stati d’Europa: un paese per vecchi non è mai proiettato in avanti. È un paese che si sobbarca spese pensionistiche ingenti e che perde energie intellettuali, economiche, professionali. Su questo non ci piove. Ma il punto non è – manco fossimo nel Ventennio – l’esaltazione del “numero come potenza”, slogan modellato intorno a una certa visione mussoliniana: la donna come angelo del focolare sforna-prole e la prole come bacino di soldati, sudditi, lavoratori, nonché custodi della razza, funzionali alla tenuta del regime o del sistema.
E nemmeno può entrarci la retorica catto-populista sulla meravigliosa priorità dell’essere genitori, famiglia tradizionale, nucleo fertile benedetto dal Signore, magari copulando solo per procreare. A uno Stato laico e moderno questa roba non può interessare, con tutta la sua melassa preistorica, le allusioni anti omosessuali e la riproposizione di un format sociale non sovrapponibile allo stile di vita presente. Perché se è vero che un Paese senza giovani muore, dal punto di vista dell’economia, della fantasia, del progresso, del desiderio e del coraggio – tutti aspetti che la campagna comunque non evidenzia – è anche vero che una famiglia con dieci figli, oggi – per un fatto di nuovi equilibri uomo-donna, di nuove esigenze e consapevolezze, di professioni, di emancipazioni, di spostamenti, di ritmi, di necessità finanziarie – non è più proponibile. Nessuno scandalo: il mondo cambia.
Ora, quanto c’è di originale in quelle slide e in quel giochino online? Quale punto di vista viene spostato, quale lampadina si accende, quale taglio ironico e gioioso si sceglie, quale compenetrazione emotiva si alimenta? L’opposto, semmai. Il cliché si rafforza e la frustrazione aumenta.
Una campagna fatta in questo modo, in effetti, non fa che scontentare. Scontenta (e mortifica) quelle donne che figli non ne hanno per scelta e che per questo non meritano di essere additate come “aliene”. Donne liete di essere single, mogli e non madri, libere, in carriera, ancora in cerca. Torna alla mente un’audace intervista rilasciata da Natalia Aspesi a Linkiesta, in cui certe frasi non lasciavano spazio al dubbio: “Fare figli è una scelta, così come non farne: questa libertà fondamentale è la più grande conquista femminile”; “Mi spiace molto per le ragazze che non hanno altri argomenti (rispetto ai figli, N.d. R.), io preferisco quelle che raccontano dei loro amanti”. Affilata, anticonformista e sempre brillante, la Aspesi. Che figli non ne ha avuti, ça va sans dire.
Scontente anche coloro che, per volontà del destino, perché ormai in là con l’età, per problemi di infertilità irrisolti, non sono rimaste incinte. Quanto brucia, in questi casi, una pubblicità che punta tutto sul dovere delle maternità e che invita a fare in fretta? E coloro che, superati i 4o anni, avrebbero voglia di provarci lo stesso? Perché promuovere l’idea che una madre non troppo giovane abbia qualcosa in meno?
Quanto agli uomini, volevamo mica dispensarli? La grafica con frase lapidaria – “La fertilità maschile è più vulnerabile di quanto sembri” – è accompagnata dall’immagine di una buccia di banana marcia, gettata su un marciapiedi. A parte i riferimenti trash, il senso è chiaro: uomo, se hai il seme moscio, non vali niente.
E infine, chi di figli ne ha fatti a stento uno, o non ne ha fatti per nulla a causa delle difficoltà economiche, del precariato, della disoccupazione, dell’indebolimento del welfare, degli asili troppo cari, della maternità che è un lusso per un’azienda? Vista da questa prospettiva una campagna simile, promossa dal Governo, risulta addirittura urticante, offensiva. Non a caso tra le parodie più diffuse ci sono quelle con la famosa clessidra e lo slogan rimodulato: “Un figlio è a tempo indeterminato, il mio contratto no”.
L’ESEMPIO DELLA DANIMARCA. UNO SPOT CHE FUNZIONA
È assodato, dunque, che discutere di genitorialità, di fecondazione assistita, di cure mediche e controlli sanitari, di famiglia, di responsabilità educativa, di crescita economica, sociale e culturale legata anche alla natalità, è un fatto positivo. Se, quantomeno, si procede con obiettività scientifica e senza forzatute ideologiche. Ma qui si contesta innanzitutto il modo. La forma (che è anche sostanza). Quell’unico scorcio individuato, che riduce una questione immensa e delicata a un raccontino vecchio, provinciale, conservatore, scontato e un filo maschilista.
Giusto per fare un raffronto, troviamo un modello riuscitissimo in una pubblicità del 2015, pensata da un’agenzia di viaggi (dunque con fini commerciali, ma con un taglio sociale) e lanciata dalla tv nazionale danese. Stessa missione: contrasto al calo delle nascite e all’invecchiamento del paese. Spot lungo (ben 2 minuti) e ironico, che risolve la complessità del tema con uno stratagemma felice, lasciando indietro tutto il resto. Inclusi vecchiume, retorica, analisi economiche, precetti religiosi, stereotipi vari.
Il succo: se il governo ha cercato un rimedio invano, la vera soluzione resta una. Il sesso. I weekend romantici. Divertirsi, viaggiare e darci dentro. E nel caso in cui una coppia fosse già troppo agé? O nel caso di due gay, con “poche chance” di procreare? Niente paura. L’importante – recita lo spot – non è vincere (a proposito di “fertility game”) ma partecipare! Sesso sempre e comunque, a prescindere da ovuli e spermatozoi. Il video è divertente, coinvolgente, trasgressivo con leggerezza, spudoratamente concreto. Qualcosa in cui ritrovarsi, oltre lezioncine, schemini e ambiguità.
Il consiglio non richiesto, per la volenterosa Lorenzin, è semplice. Aprire lo sguardo, svecchiare i modelli e calarsi un po’ di più nel reale. I figli, chi li vuole, li fa. Purché sia messo in condizione. E per chi non li vuole, va bene lo stesso. Come saggiamente rammenta la Aspesi, “il destino delle donne è vivere”. Non (per forza) procreare.
Helga Marsala
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