Non solo Charlie. Se la satira sfida la morte

Dopo giorni di dibattito, una sintesi e un po’di riflessioni intorno alle vignette di Charlie Hebdo. E alla satira che fa riferimento a un certo gusto estremo. Rappresentare la morte, sbeffeggiare le vittime, usare l’innocenza. A che pro? E fino a che punto? L’opinione pubblica si divide, ma la questione è antica. Tra satira eversiva e spettro della censura. Charlie è Charlie da mezzo secolo. E ci racconta, in fondo, qualcosa di noi.

TERREMOTO CHARLIE. LE VIGNETTE DELLA DISCORDIA
Siamo ancora tutti Charlie? Non più, a quanto pare. Non in quell’Italia colpita al cuore da una delle solite vignette del noto magazine francese. Lo stesso stile di sempre, la stessa carica corrosiva che qualcuno chiama humour nero e qualcun altro cinismo volgare. Lo sapevamo da sempre chi erano quelli di Charlie Hebdo. E dopo l’attacco terroristico che aveva ucciso dodici persone della redazione, a Parigi, avevamo pianto, imprecato, pregato. Tutti dalla parte dei vignettisti, puniti a morte dai soldati di IS. “Je suis Charlie”, scrivevamo con lettere di rabbia nel brusio del web. Un rito dell’immedesimazione, un’elaborazione corale del lutto. Smontando la paura a colpi di slogan libertari.
Oggi, cambia tutto. Le matite cattive dei cattivi ragazzi di Charlie hanno preso di mira l’Italia. Nel momento peggiore. Una vignetta ha commentato il terremoto del 28 agosto scorso, con i suoi 296 morti e i 388 feriti. “Terremoto all’italiana”, diceva. Proprio come il cibo e altre amenità di casa nostra. Ed ecco le vittime ridotte a cliché, esseri umani come cose, come un piatto di penne al sugo, un prodotto tipico locale. Fino a diventare il ripieno splatter di una lasagna: le case di pasta sfoglia crollano anche per la disattenzione, i cantieri mai partiti, i fondi sottratti o usati male, la burocrazia malata, le norme di sicurezza non rispettate. “All’italiana”, appunto.

La seconda vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto in Italia

La seconda vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto in Italia

Il messaggio però non è passato e l’ambiguità – che a volte è virtù – qui è si è fatta ostacolo. Vuoi per la delicatezza del tema, vuoi perché deridere una vittima è sempre un azzardo, vuoi per un difetto d’immediatezza, una debolezza formale. E se serve bravura, nella sintesi satirica, ne serve cento volte di più quando di mezzo c’è il dolore. La morte chiede la massima luce, una precisione da artisti-cecchini.
La seconda vignetta rispondeva alla collera rincarando la dose. “Non è Charlie Hebdo a costruire le vostre case. È la mafia”. Una spiegazione sprezzante, disegnata di pancia e dunque ancor meno riuscita. Troppo didascalica e palesemente vittima di uno stereotipo. Italia, pasta, mafia e mandolino. E sì, tra abusivismo edilizio, opere incompiute e corruzione, il problema c’è ed è immenso. Ma i luoghi comuni trascinano la verità incontro al banale.

Charlie Hebdo, la copertina del numero pubblicato dopo la strage

Charlie Hebdo, la copertina del numero pubblicato dopo la strage

ESSERE CHARLIE. UNA QUESTIONE MORALE
Per giorni non si è parlato d’altro. La maggioranza sdegnata, contro chi ancora difendeva l’esprit caustico di Charlie. E tra i più irritati, c’è chi si è spinto troppo in là. Dall’indignazione al pensiero punitivo il passo è breve: “In fondo non avevano poi tanto torto, i soldati di Allah”. Appena lo sberleffo ha colpito il proprio paese, i propri morti, i propri dolori – piuttosto che l’Islam – ecco che il dispositivo della tolleranza è andato in tilt. L’inviolabilità del sacro, come principio personalizzato: buono solo a convenienza.
E non si è trattato solo di webeti e leoni da tastiera. Assai più scandaloso di entrambe le vignette è stato l’ennesimo titolo shock del quotidiano Libero: “Viene voglia anche a noi di sparargli”. Orrore all’ennesima potenza. Perché questa retorica della vendetta, questo gusto dell’inumano, questo sangue da cui ci proteggiamo e che poi spargiamo, idealmente, per fare numeri, copie, share, like, consensi elettorali, è sangue misto a fango. Indigeribile.

Il titolo di Libero a commento della vignetta di Charlie

Il titolo di Libero a commento della vignetta di Charlie

E dunque, punto primo. Essere Charlie non è e non è mai stato amare le vignette di Wolinski, Cabu, Luz, Charb. Non è e non è mai stato un problema di cosa piace e cosa no. Essere Charlie era ed è una questione morale. Indossare i panni di chi cade sotto la scure di un ideologismo radicale. Si era Charlie per abbracciare il coraggio di una pratica non così scontata: la libertà, nonostante tutto.  Liberi di dire, irridere, capovolgere, provocare, dissociarsi, non avere fede. Non chiedendo alla creatività il sacrificio dell’ipocrisia, non facendo della satira un minuetto di maniera, un inchino borghese, un sorriso per forza bonario. Essere Charlie – accettandone una volta per tutte il carattere e lo stile – era anche non amare Charlie, così sguaiato e tagliente. Eppure difendere il suo posto nel mondo. Contro chi, blaterando di limiti e di misure arbitrarie, era giunto a farsi giudice, quindi giustiziere.

Il Male, n° 3. Marzo 1978 - in copertina una caricatura di Aldo Moro, disegnata da Pino Zac

Il Male, n° 3. Marzo 1978 – in copertina una caricatura di Aldo Moro, disegnata da Pino Zac

NESSUN LIMITE
China sempre pericolosa, quella che ammicca alla censura e ai guardiani del pudore. Chi controlla? Chi punisce? Cosa è sacro e per chi? La religione, la morte, i sentimenti, i vecchi, i bambini, i malati, il corpo, il sesso, il padre e la madre? Chi stabilisce i parametri e i simboli da tutelare? Chi traccia i confini della sensibilità collettiva o personale? Democrazia e laicità si collocano altrove, per fortuna; un altrove scandalosamente plurale. E libertà è anche scegliere cosa leggere, cosa guardare, chi frequentare: un giornale anziché un altro, una pagina Facebook anziché un certo blog.
Charlie Hebdo è fiero di essere “bête et méchant” (stupido e cattivo) da cinquant’anni. Come lo era il mitico Il male, che dal 1977 al 1982 collezionò polemiche, denunce per vilipendio, accuse di oscenità, reazioni di insofferenza. Dunque, di cosa ci stupiamo esattamente? Del fatto che esista un certo filone satirico, con un registro e un’attitudine particolari? Qualcosa che a inseguirne l’origine si arriva fino alla satira latina e ai licenziosi fescennini, banditi dalle autorità romane. Niente di nuovo sotto il sole dell’arte, della letteratura, della creatività.
Vero è, parimenti, che il diritto di critica è necessario. Se una vignetta non piace la si smonta, la si fa a pezzi, la si deride a sua volta. E quelle sul sisma hanno sferrato colpi e ne hanno incassati. Hanno fatto, cioè, il loro mestiere. Bene? Male? La percezione è soggettiva. Certamente hanno sollevato questioni.
Può la satira affondare le mani tra i cadaveri? Può collocarsi sulla scena di una tragedia? Può prendere di petto la morte e il dolore? Posto che un limite oggettivo non possa essere fissato, dovrebbero forse scattare l’auto limitazione del buongusto, il senso del rispetto, la voce dell’empatia? Quel sentimento della “pietà” invocato da Eucharren, in questi giorni, sull’Huffington Post? Ovvero, ci sono temi e situazioni che meriterebbero il silenzio, a priori? La riposta è no.

Mario Sironi, Chiaro di luna, 1915 - l'Iperatore Francesco Giuseppe e il Feldmaresciallo von Windisch-Graetz, come due innamorati. Ma la morte è in agguato

Mario Sironi, Chiaro di luna, 1915 – l’Iperatore Francesco Giuseppe e il Feldmaresciallo von Windisch-Graetz, come due innamorati. Ma la morte è in agguato…

IL POTERE DELLA SATIRA
A dirlo, quasi un secolo fa, era già Kurt Tucholsky, giornalista e scrittore tedesco, tra le firme satiriche più pungenti dell’epoca, esiliato in Svezia negli anni del Nazismo. “Cosa può fare la satira? Tutto!”, scriveva nel 1919. E ancora, “La satira esagera? La satira deve esagerare e la sua essenza più profonda è quella di essere ingiusta”. Eversiva, eccessiva, implacabile, scorretta, autorizzata a sporcarsi con la linfa più nera della vita. E col suo doppio terribile, che è la morte. La satira è anche (ma non solo) questo.
“Non fa ridere, però”: un’accusa ricorrente. Poco male. Non deve far ridere per forza. Si tratta semmai di puntare al grottesco, al paradosso, al rovesciamento urlato oppure sussurrato, alla piega amara della bocca. Mettere in ridicolo i simboli del potere e scuotere qualunque piedistallo. Feroce con la ferocia, con l’ingiustizia, con l’imbecillità, con la mediocrità.  Con la tragica follia delle cose. E non c’è autorità, tabù, fede, soglia, dogma, feticcio, che non sia stato deriso, violato, sovvertito.
Da Seneca a Charlie, passando per Dante; dai cupissimi Capricci di Goya alle tele “degenerate” di George Grosz, punite dalla censura nazista; dalla Danza Macabra Europea di Alberto Martini – trionfo di cadaveri e crudeltà, che colpiva i barbari teutonici come i patrioti italiani – fino alle tavole di Mario Sironi: ancora i signori della guerra, le armi, l’apocalisse in terra e la morte in cielo, come una falce a forma di luna.
Venendo ai giorni nostri e alla querelle Italia-Francia, gli italiani non sono stati meno irriverenti nei confronti dei cugini d’Oltralpe. Beppe Mora, sul Fatto Quotidiano, ha ridotto la strage di Nizza a un “film dell’orrore”: il red carpet era un fiume di sangue, tra le palme della Promenade des Anglais. Ma nessuno, in quel caso, si arrabbiò.

La vignetta di Beppe Mora sul Fatto, per la strage di Nizza

La vignetta di Beppe Mora sul Fatto, per la strage di Nizza

IL PICCOLO AYLAN. RAPPRESENTARE LA MORTE
Esemplari sono le vignette (contestatissime) dedicate da Charlie Hebdo al piccolo Aylan Kurdi, figlio di profughi siriani, morto durante la disperata fuga in mare. L’immagine del cadavere, a faccia in giù sul bagnasciuga, era diventata spaventosa icona dell’ennesima strage nel Mediterraneo. Charlie quell’immagine l’ha replicata più volte. “Chi sarebbe diventato il piccolo Aylan, se fosse cresciuto? Un palpatore di culi in Germania”: il riferimento qui era ai fatti di Colonia dello scorso 31 dicembre, quando decine di donne vennero molestate da migranti, tra la folla. Razzista il disegnatore? Naturalmente no. Riss è anzi noto per il suo impegno contro la xenofobia. Il bersaglio, semmai, era la diffusa retorica dell’“invasione” di migranti, bollati come terroristi, ladri, violentatori. Ed ecco la provocazione, spiata fra i pensieri più foschi del cittadino medio, oppure pescata tra le brutture dei social: “pazienza se qualcuno annega. Un delinquente in meno“.

Charlie Hebdo, la vignetta di Riss sui fatti di Colonia e la morte del piccolo Aylan

Charlie Hebdo, la vignetta di Riss sui fatti di Colonia e la morte del piccolo Aylan

Stesso mood per la vignetta che ritrae Gesù a un passo da Aylan (“I cristiani camminano sulle acque, i musulmani annegano”) o per quella che piazza un cartellone di McDonald in riva, ad accogliere la salma: l’ipocrisia di certi credenti e l’illusione capitalista di un paradiso che non c’è.
Siamo allora dinanzi a una satira che attacca il sistema o la cultura dominante, ma che lo fa per una via traversa, irricevibile. La via delle vittime e degli innocenti. Non è più la caricatura dell’Imperatore, lo sfottò del potente, la barzelletta sul Profeta. È la messa in scena, politicamente scorretta, del corpo di sudditi, morti, feriti, disperati. Da loro passa l’offesa, scagliata contro i colpevoli.
Certo l’immagine della morte acceca, disturba. Anche se evocata con quattro linee su un foglio. Ed è propri questa potenza, questo peso specifico, che la satira à la Charlie usa qui e là per veicolare il messaggio. A volte con successo, altre meno. Rispettare la morte, nel caso di Aylan, avrebbe significato rivendicarne l’irrappresentabilità (come qualcuno ha fatto). Un’iconoclastia della discrezione e del riguardo. Eppure non c’è orrore, abominio, sofferenza, che l’uomo non abbia tradotto in immagine. Un fatto ancestrale. Perché se la morte e il dolore attengono all’“informe” e all’irrazionale, metterli in immagine è un altro modo per comprendere, tollerare, esorcizzare. Per costruire una parvenza di senso.
E la discesa agli inferi, lasciando venire la paura, gli impulsi bassi della folla, la perversione del potere e il rimosso collettivo, funziona qualche volta come specchio spietato. Guardare l’abisso e riconoscersi. E starci male. Lo stesso abisso che ci fa dire, dopo l’offesa: “Je ne suis plus Charlie. In fondo, se l’è cercata.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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