Apre lo Smithsonian NMAAHC a Washington. Intervista a David Adjaye
Inaugura domani a Washington l’attesissimo Smithsonian National Museum of African American History and Culture. A firmarlo è l’architetto inglese David Adjaye. Lo abbiamo incontrato a poche ore dalla consacrazione.
Inaugura domani 24 settembre l’attesissimo Smithsonian National Museum of African American History and Culture di Washington firmato da David Adjaye [qualche mese fa vi avevamo segnalato l’ultima monografia che gli ha dedicato la Yale University Press, N.d.R.]. Nato in Tanzania da genitori ghanesi, il britannico classe 1966 ama definirsi un “architetto globale”. Dopo gli esordi nell’East London con le fortunate residenze per artisti e le pionieristiche biblioteche Idea Store, l’ascesa di Adjaye è proseguita negli anni, portando il suo studio ad avere quattro sedi tra Europa, America e Africa, e cantieri in quattro continenti.
Nei giorni che consacrano l’architetto inglese fra le stelle dell’architettura mondiale, Artribune lo ha incontrato.
Il NMAACH è il primo museo degli Stati Uniti dedicato alla storia e alla cultura afro-americana. Un incarico così prestigioso comporta numerose scommesse: qual è stata la più impegnativa?
Il NMAAHC è stato per me una grande sfida per l’immensa responsabilità insita nel progetto: doveva rendere giustizia a una storia importante e complessa, ancora oggi troppo poco raccontata. È un progetto che significa così tanto per così tante persone, il risultato di un secolo di battaglie: è molto più di un edificio. Ha rappresentato per me un onere e una sfida, ma allo stesso tempo uno stimolo: avere la possibilità di contribuire a un intervento che ha una tale risonanza è il sogno di ogni architetto.
Il NMAAHC è quindi al contempo un museo e un monumento. Come coesistono narrazione e valore simbolico nel tuo progetto?
La narrazione è un elemento essenziale di ogni mio processo creativo. Nel caso del NMAACH, riguarda l’esplorazione del significato di “afro-americano”. La forma dell’edificio, che si ispira all’arte degli Yoruba dell’Africa occidentale, è un preciso riferimento geografico: vuole evidenziare come la migrazione di un popolo abbia profondamente cambiato una nazione. Gli Stati Uniti sono stati infatti quasi letteralmente costruiti sulle spalle degli Africani, la loro cultura è imbevuta di sensibilità africana: senza questa lente concettuale non si può comprendere pienamente il Paese. Il progetto è quindi una rappresentazione dell’eredità afro-americana in un contesto globale: vuole onorare il contributo degli afro-americani alla cultura statunitense e la loro lotta che ha dato così tanto all’America; ripensare i legami fra l’Africa e l’America; in sintesi, riconoscere che la storia afro-americana è storia americana. È proprio con questo intento che Il NMAAHC si aggiunge alle altre istituzioni sul National Mall.
Parliamo del tuo profondo legame con l’Africa. Tra il 1999 e il 2010 hai condotto un’intensa ricerca sul campo, studiando la condizione urbana e l’architettura di 53 capitali del continente. Qual è il lascito di questa esperienza?
Grazie a questa ricerca, ho compreso come la geografia e la storia hanno profondamente determinato la situazione attuale, l’Africa che conosciamo oggi. Una condizione creata da climi estremi e storie straordinarie: questa è la lente da usare se si vuole davvero comprendere l’Africa. È una lezione che ha profondamente influenzato il mio approccio alla progettazione.
In che modo?
Ogni progetto inizia con una rigorosa analisi delle specificità del contesto geografico. Ancor prima dello schizzo e dell’idea progettuale, il passo iniziale è spedire sul campo il mio team di ricerca. Questo non si compone di architetti – ma di sociologi, studiosi di economia politica e teorici dello sviluppo – che mi informano riguardo ogni aspetto del luogo, dalla storia al clima. Così facendo acquisisco i dati di base necessari a creare architetture che rispondano genuinamente al loro contesto.
Pochi anni fa hai aperto uno studio ad Accra, in Ghana. In base alla tua esperienza, qual è il ruolo dell’architettura per il futuro dell’Africa?
L’Africa è un continente in rapida urbanizzazione. In seguito al repentino sviluppo economico si è verificata un’improvvisa migrazione di massa verso le città. Come possiamo pianificare l’espansione delle città africane, originariamente nate per accogliere un numero limitato di persone? La maggior parte di esse infatti era stata costruita per ospitare solo ristrette élite. Come possono ora crescere confrontandosi con il loro passato coloniale? Come sviluppare una pianificazione moderna alla luce della loro eredità e storia?
Quale architettura può fornire le risposte a queste domande?
Quella che cerca di dare un senso ad ambienti che sembrano caotici, a quei programmi e quelle idee che sembrano non avere alcuna rilevanza architettonica, ma che invece, una volta realizzati, hanno un profondo effetto sul modo in cui pensiamo e guardiamo noi stessi nel mondo. L’architettura può far questo e io ne sono molto ispirato.
Il potere trasformativo dell’architettura è in effetti una costante del tuo lavoro, dai primi edifici di East London fino alle più recenti realizzazioni in USA. Penso a Sugar Hill a Harlem, il tuo primo intervento di social housing a grande scala…
Il progetto di Sugar Hill fa perno sul potere dell’architettura di risollevare una comunità, di ispirare orgoglio e dignità. È una sfida al luogo comune secondo il quale certe comunità possono o devono tollerare una cattiva architettura. È anche il tentativo di pensare una nuova tipologia rivolta olisticamente ai bisogni delle fasce di popolazione a basso reddito, alle quali fornire in maniera efficace le infrastrutture necessarie. Di conseguenza, il progetto non prevede solo housing sociale, ma anche un asilo, un museo, una urban farm e spazi per uffici. L’ho progettato nella speranza che possa essere un simbolo di orgoglio civico e sia considerato come una nuova risorsa per il quartiere.
Lo scorso luglio è uscita Dialogues, raccolta dei soundscape che tuo fratello Peter, compositore e dj, ha creato per accompagnare alcune delle tue architetture, fra cui l’Asymmetric Chamber (2003) e il Nobel Field di Oslo (2005). Come è nata questa collaborazione? Come dialogano un architetto e un musicista?
Il dialogo con Peter è nato per capire se diversi mezzi espressivi potevano entrare in relazione. Senza prestabilire alcuna regola, io disegno qualcosa e poi lascio che Peter reagisca. Si può dire che l’espressione dell’architetto costituisce la cartografia dell’operazione; il compositore traduce quella traccia in una partitura musicale, coordinando i musicisti per ottenere la giusta vibrazione.
Marta Atzeni
http://www.adjaye.com
http://nmaahc.si.edu
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati