Terremoto e ricostruzione. Parola a Giovanni Caudo

Professore di Urbanistica presso l’Università degli Studi Roma Tre, Giovanni Caudo si focalizza sul metodo da applicare nella gestione del post-sisma. Invocando una “unitarietà di ragionamento”. Mentre del terremoto si parla sempre meno.

TERREMOTATI
Non è il terremoto che uccide, ma le opere dell’uomo. Frase pronunciata dal vescovo di Rieti, che ha avuto il merito di fare piazza pulita di tanta retorica e demagogia esercitate per giorni interi allo scopo di stendere una coltre di chiacchiere, per lo più inutili, sulle macerie e purtroppo anche sui morti.
Le opere dell’uomo. Di questo si parla. E per cominciare bisogna dire che abbiamo un servizio nazionale di Protezione Civile che è di alto livello, forse tra i migliori in Europa. A poche ore dai crolli la macchina dei soccorsi, competente e organizzata, è intervenuta salvando le persone seppellite sotto le macerie ma ancora vive, mettendo in sicurezza i terremotati e dando l’assistenza necessaria. Tendopoli allestite in poche ore, scuole d’emergenza approntate in poche settimane e aperte in tempo per l’inizio dell’anno scolastico. E ancora, individuazione delle aree delle zone rosse, salvataggio e messa in sicurezza dei beni mobili di valore storico che riempivano le tante chiese di Amatrice. Senso di responsabilità, organizzazione che vuol dire compiti e ruoli ben chiari e definiti: ognuno fa quello per cui è stato chiamato e coinvolto. Niente arte di arrangiarsi di italiana memoria. Pianificazione e programmazione di tutte le risorse disponibili. Appunto, le opere dell’uomo possono salvare vite umane, possono alleviare le sofferenze, possono rendere vivibili spazi diventati luoghi di morte e far rinascere la speranza. Possono farlo, possiamo farlo, lo sappiamo fare. Ma questo accade solo dopo la tragedia, solo quando il danno è ormai irrecuperabile. Sappiamo intervenire ma non sappiamo prevenire, in questa ultima attività il senso di responsabilità si perde, si scioglie nei tanti opportunismi, veti e piccole convenienze.

Basilica di San Francesco AMATRICE-Foto Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale

Basilica di San Francesco
AMATRICE-Foto Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale

IL RESPIRO DI UNA STORIA
Il terremoto di Amatrice con i suoi tantissimi morti purtroppo non ci ha insegnato niente di nuovo, ci ha solo ricordato ancora una volta, speriamo sia quella buona, che il tessuto edilizio dei nostri comuni dell’Appennino, l’osso dell’Italia, è costruito su una faglia attiva che scuote il terreno e dà origine a sommovimenti, da sempre. La morfologia così variegata che costruisce paesaggi unici è una costruzione geologica ancora viva: possiamo abitare quei luoghi impareggiabili, ma dobbiamo adeguare le nostre abitazioni, le opere dell’uomo, per l’appunto, al rischio sismico. Non è un compito facile né immediato. Serve responsabilità e serve soprattutto programmazione e pianificazione. Ma non basta. Bisogna prima convincersi che bisogna farlo, che quei comuni svuotati nel Novecento dall’immigrazione verso i destini industriali del Paese e verso il mondo nuovo ora possono tornare a essere parte del nostro futuro. Dietro la differenza tra i pochi residenti e i tanti che abitano lì per poco tempo e aprono e chiudono le seconde case c’è il respiro di una storia. Fabrizio Barca, in uno dei suoi ultimi atti da direttore generale del dipartimento coesione prima e poi da Ministro, ha avviato un programma nazionale per le aree interne, pensando proprio al contributo che questi centri abitati possono dare a un nuovo modello di sviluppo più sostenibile, più legato alla valorizzazione delle risorse del territorio. Un modello di sviluppo ancora urbano, ma non più dipendente dalle città dense e affollate. Un modello che sa rispondere contemporaneamente alla domanda di chi è alla ricerca di un Paese, e di chi, abitando quei piccoli centri, è invece alla ricerca dell’aria di città. Servono politiche per costruire questo punto di incontro. Politiche che organizzino risorse, evidenzino la domanda e programmino la trasformazione di quelli che erano, ancora sessant’anni fa, i luoghi della fatica atavica e della povertà.

IL SILENZIO SULLA “STRATEGIA DELLE AREE COMUNI”
Costruire comunità di abitanti costituite da residenti, dai nuovi arrivati, compresi gli immigrati, e dagli abitanti temporanei in cerca di modi di vita più sostenibili è il primo passo per programmare la rinascita di questi luoghi. Contemporaneamente si programma il recupero, il rinnovo e la sostituzione edilizia con i necessari adeguamenti sismici, a cominciare dagli edifici pubblici, ospedali, scuole, palestre e caserme. Sorprende che il governo non abbia fatto cenno alla strategia delle aree interne, un programma che si sta già sviluppando in diversi contesti territoriali, e che si prefigge di fissare le ragioni attorno a cui ricostruire un senso per la comunità insediata. Sorprende che rincorra il gesto dell’architetto di grido o la sapienza del super esperto. Ma ora che la polvere del clamore mediatico si sta posando, che ognuno ha detto qualcosa e che si è mostrato, è tempo di un programma serio, da fare in silenzio ma con la determinazione che proprio in quei territori conoscono bene.

Terremoto in Italia Centrale

Amatrice prima e dopo il terremoto

COSA FARE D’ORA IN POI
Bisogna intanto ripartire dal senso che bisogna dare alle aree interne del nostro Paese, cosa rappresentano oggi nel XXI secolo, nell’era dell’urban age, delle città globali che si assomigliano ovunque. Quei territori ci propongono la differenziazione, la specificità, l’unicità nel sistema insediativo e quindi nella cultura, nella cucina nei prodotti della terra. Un paradosso, ma solo apparente, è in questi Paesi che l’aria rende liberi, non più nelle città. Se abbiamo un motivo per dare senso a questi Paesi abbiamo di che sperare per la loro ricostruzione. Il “dov’era com’era” è una frase fatta, appunto per i media. Serve invece un lavoro di costruzione tutti insieme del come deve essere in coerenza con il progetto di futuro che è il solo che può rinnovare, salvaguardandole, le tradizioni e le origini di questi luoghi. La vita è fatta di slittamenti per un mutuo adattamento con l’evoluzione e con il cambiamento. Di questo si deve occupare la ricostruzione. Le case sono parte di questo ragionamento lungo, non il fine, il fine è il Paese del nuovo secolo. Chi fa questo lavoro e chi paga? Le case sono private ma i Paesi sono espressione collettiva, serve un regia pubblica capace di tessere il discorso, la trama di una narrazione comune dove il privato costruisce e coglie la propria opportunità. Servono investimenti pubblici, per questo è necessario che si appronti un piano per la ricostruzione integrato con quello delle aree interne, servono soldi per costruire i servizi (scuole e ospedali…), servono soldi pubblici per portare in quelle aree le infrastrutture, strade e fogne, ma importante è disporre della banda larga. Si può lavorare e abitare lontano dal proprio lavoro, si può decidere di fare ricerca ed essere inseriti in circuiti internazionali della comunità scientifica e poi scendere dal fornaio che fa ancora il pane del Paese. Si può essere al centro del mondo, ma abitare nell’osso del paese Italia. Ecco un primo obiettivo: rendere accessibili questi luoghi e non nel senso di costruire strade.

Chiesa di San Giovanni AMATRICE-Foto Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale

Chiesa di San Giovanni
AMATRICE-Foto Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale

LA QUESTIONE DELLE RISORSE E IL RUOLO DEI PRIVATI
I soldi? Ricostruire costa e non si può semplificare con incentivi inventati o contributi standardizzati. Si facciano i piani e si affianchi una programmazione economica, finanziaria e fiscale. Non serve sapere quanto spenderemo ma come e con quali processi e procedure. Questa unitarietà di ragionamento deriva dalla stessa morfologia dell’abitato: che senso ha recuperare, mettere in sicurezza una tessera del tessuto edilizio se quella a fianco non lo è? Il terremoto non capita solo per alcune abitazioni, per questo qui si possono accettare solo discorsi organici. Il nostro tempo invece ci porta a pensare discorsi puntuali, separati, da individui soli. Serve poi un contributo del privato, non subito ma nel tempo ci dovrà essere una restituzione anche parziale degli investimenti pubblici. Una compartecipazione che coinvolge il privato nei controlli in modo che le opere siano fatte bene e i costi non siano volutamente fuori misura. Serve un conflitto di interessi per evitare forme nascoste di assistenzialismo e di distrazione di risorse. Attenzione al localismo degli enti locali: è vero, sono indispensabili, perché sono quelli che più conoscono le esigenze locali, ma sono anche i più soggetti alle pressioni delle convenienze di pochi. Non dimentichiamo che tra le case crollate molte erano state rifatte con lavori approvati da funzionari e tecnici del paese. Un problema di soldi, ma prima ancora di governo dei processi. Piani, programmi e disegno della città potrebbero tornare a essere parole e concetti utili, in grado di declinare il futuro di un presente che è tanto più vulnerabile in quanto è l’unico tempo che sappiamo coniugare. Per dare un segnale che si fa sul serio e si è consapevoli che bisogna cambiare la rotta dei primi giorni, mi aspetterei che il progetto del governo per la messa in sicurezza degli edifici invece di Casa Italia si chiamasse le Città d’Italia.

Giovanni Caudo

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Giovanni Caudo

Giovanni Caudo

Giovanni Caudo (Fiumefreddo di Sicilia, 1964). Architetto, professore associato di urbanistica presso il Dipartimento Architettura dell’Università degli Studi “Roma Tre”, dove svolge attività didattica nel corso di laurea in Scienze dell’Architettura e nel dottorato. Dal luglio 2013 all’ottobre 2015 è…

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