Where the streets have no name (I). Migrazioni e conoscenza
Prende il via il nuovo ciclo di saggi firmati da Christian Caliandro. Stavolta il titolo si ispira a quello di un famoso brano degli U2 e l’allusione è a un’epoca in cui gli incontri e gli scambi sembravano una realtà possibile, ma totalmente opposta al tempo presente.
“I wanna run, I want to hide
I wanna tear down the walls
That hold me inside.
I wanna reach out
And touch the flame
Where the streets have no name”.
U2, Where the streets have no name (1987)
In treno da Bari a Senigallia, 21 luglio 2016.
In partenza per Demanio Marittimo Km-278: parleremo di migranti & migrazioni, di nuovi muri in Europa – costruzioni e ricostruzioni identitarie, come si fa a ripartire da una nozione ibrida e aperta di se stessi e dell’altro – quando tutto sembra finire, e siamo d’accordo su questo, come si fa a concepire e praticare l’inizio – una nuova civiltà, una nuova forma di vita, un nuovo paradigma forse – parola abusata dai presunti innovatori e “iniziatori” di quest’epoca spicciola e scadente, a buon mercato.
Il tema dei migranti e dei nuovi muri che vengono eretti in Europa è uno dei più attuali e scottanti in Italia e nell’intero continente, dal momento che influenza direttamente molteplici dimensioni: la società, l’economia, il costume, la cultura. Pur essendo dunque una questione fondamentale per definire il presente e il futuro prossimo del nostro Paese, non sempre il suo racconto è all’altezza delle aspettative e delle esigenze collettive: siamo abituati infatti a un tipo di percezione mediatica che privilegia i toni dell’emergenza, trascurando nuove prospettive, percezioni del presente e punti di vista sul futuro da cui osservare e analizzare il fenomeno. Una di queste – di rilevanza enorme per iniziare a studiare la nuova identità italiana che sta emergendo nonostante tutto: articolata, complessa, ibrida – ha a che fare con il valore e il senso culturale dei migranti e delle migrazioni rispetto a un immaginario condiviso.
Che cosa possono fare l’arte e la cultura rispetto a questo fenomeno? E che cosa potrà fare questo fenomeno per l’arte e la cultura del nostro tempo?
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Vlora 1991: nell’agosto di venticinque anni fa, l’arrivo della nave albanese nel porto di Bari come una supernova storico-culturale; e ventitré anni fa, Zooropa degli U2 come l’annuncio di un’epoca meravigliosamente fantascientifica, intessuta di fusioni unioni incontri sovrapposizioni illuminazioni fulminee/fugaci, mai avveratasi – e trasformatasi anzi nel suo opposto speculare…
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Stiamo oggi vivendo e facendo esperienza di un’“utopia retrograda” (Zygmunt Bauman), con maggioranze silenziose che sognano una “vagheggiata heimat omogenea, protetta e rassicurante” (Gigi Riva).
Siamo ancorati, e trascinati giù, dall’autorassicurazione, dall’autoconsolazione, dalla continua ricerca di conferme per quello che presumiamo di sapere già – il che vuol dire che ci siamo disabituati non solo a imparare cose nuove, ma soprattutto a vedere quelle vecchie in modi diversi. Questo deficit, questa carenza di prospettive, di punti di vista interessanti ci facendo sprofondare. E intanto, quasi non ci soffermiamo su quanto poco sappiamo, in realtà, di queste identità culturali così estranee, straniere.
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Su Gian Maria Tosatti e Alessandro Bulgini a Calais (8-18 luglio 2016).
Due operazioni quasi analoghe, eppure di fatto opposte – perché diversissimi, opposti sono gli atteggiamenti, le attitudini, le disposizioni d’animo che le guidano. L’uno, Alessandro, si concentra tutto nel tempo dell’esistenza – si consegna, quasi, all’altro, in una disperazione speranzosa di bruciare vita esperienza attesa progetto – e nel fare questo l’opera stessa si annulla, e al tempo stesso si completa, si dissolve e scompare perché appare in tutta la sua potenza e energia dispiegata momentaneamente, esiste semplicemente nel vento e nella Jungle e nell’umanità di rapporti che si stabiliscono volta per volta, che faticosamente si costruiscono e gioiosamente si disfano.
L’altro, Gian Maria, sta portando avanti un’archeologia, in due sensi complementari: come carotaggio del passato più o meno recente, della storia dell’Italia repubblicana (dal secondo dopoguerra agli Anni Novanta), e come atto di fede, faticoso tentativo di rintracciare i segnali e i semi del futuro immediato. Archeologia dunque di un passato in gran parte rimosso, inattingibile perché da esso ci separa uno schermo, e al tempo stesso di un futuro integralmente da progettare e costruire. È per questo che la sua opera ha così spesso a che fare con reliquie, reperti, residui, scarti e detriti. Ha grande familiarità con il crollo.
Christian Caliandro
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