Where the streets have no name (III). Interferenze e intervalli
In risposta a un conformismo culturale diffuso, che considera il coraggio e l’audacia una follia poco produttiva, coltivare il vuoto, l’intervallo e l’interferenza può trasformarsi in una fonte di ispirazione per lo sviluppo di nuovi sguardi.
“The city’s a flood, and our love turns to rust.
We’re beaten and blown by the wind
Trampled in dust.
I’ll show you a place
High on a desert plain
Where the streets have no name
Where the streets have no name
Where the streets have no name”.
U2, Where the Streets Have No Name (1987)
Una forma di attenzione divergente, diversa, soffusa. Distratta. (La medesima attenzione che c’è nel tessuto di Zooropa, nei brani sospesi, rudimentali, indecisi, accuratamente irresoluti.) Levigatura paranoica & spasmodica. Relax sofisticato. Sprezzatura.
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Ci siamo accontentati per anni, per decenni di un gusto assolutamente liofilizzato – il risultato è l’educazione di uno spirito assolutamente gregario. La cultura è dominata dal conformismo e dal rifiuto categorico del rischio – coraggio e audacia sono considerati come follie improduttive, buone per i gonzi che non hanno la minima idea di come si fa a “diventare qualcuno”, e per questo si rifugiano in patetiche e polverose utopie adatte forse a tempi più semplici e zuccherosi. (Come se gli Anni Dieci o Trenta o Cinquanta del Novecento fossero mai stati “semplici e zuccherosi”: perché poi c’è da dire che la nuovavecchia arroganza si accompagna sempre e da sempre a un’ignoranza e a una cretineria sorprendenti.)
Comunque. Occorre proprio guadagnare, conquistare quella condizione del “non-aver-nulla-da-perdere”: che si è dimostrata infatti quasi sempre la più proficua per far emergere dal buio oggetti e sguardi nuovi.
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La tante rifrazioni dei “giorni di Calais” illuminano le differenze tra i modi di procedere – più che tra i lavori specifici – di Gian Maria Tosatti e Alessandro Bulgini, apparentemente così simili. Essi sono, in effetti, complementari: ma molto diversi per natura, punto di vista, disposizione.
Gian Maria è interessato ai relitti – e all’archeologia del futuro. Questo interesse investe a onde successive molteplici dimensioni: storia, società, politica, economia, cultura, arte contemporanea. Procede per “stratigrafie” e “carotaggi”. Gli spazi fisici nella sua opera vengono costantemente sottoposti a un processo trasfigurativo e metaforico: dicono altro da quello che sono oggi, e che sono stati ieri. Partoriscono cioè i frantumi e i frammenti luminosi, i semi del futuro.
Alessandro si orienta sempre più a cogliere la vita, seguendo in maniera fedele, e quasi monastica, il precetto di Goffredo Parise: “Allora non sapevo nulla del mio estetismo, né che l’arte più pura e perfetta che esista sulla terra è quella living, cioè della vita, dell’apparizione fisica in un determinato momento e mai più”.
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Che poi, il testo di Where the Streets Have No Name parla proprio di un luogo in cui non valgono le regole comunemente accettate, perché sono “esplose” le condizioni dell’ingiustizia sociale. Questo luogo ha a che fare cioè con differenze e divisioni, legate a ricchezza, classe, ceto: “Una storia interessante che mi raccontarono una volta è che a Belfast, a seconda della via dove qualcuno abita, si può stabilire non solo la sua religione ma anche quanti soldi guadagna: addirittura a seconda del lato della strada dove vive, perché più si risale la collina più le case sono costose. Puoi quasi dire quanto guadagna uno dal nome della strada dove abita e su quale lato della strada ha la casa. Questo mi disse qualcosa, e coì cominciai a scrivere di un posto dove le vie non hanno nome” (Bono).
Così in questo posto le prospettive si allargano in maniera indefinita, i confini vengono sbriciolati e un altro punto di vista emerge, all’interno di una precarietà divenuta stabile situazione di esistenza: “La città è una piena / e il nostro amore si sta arrugginendo / Siamo colpiti e soffiati via dal vento / Calpestati nella polvere / Ti mostrerò un posto / In alto sulla piana deserta / Dove le strade non hanno nome…”.
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La scrittura che proviene da un vuoto – e quel vuoto è l’unica cosa vera che esiste, tra moltissime illusorie – la scrittura come un’interferenza, qualcosa di non previsto né atteso, il contrario dell’attenzione, qualcosa che non solo distrae e distoglie la concentrazione ma che nasce e cresce proprio nell’attimo della distrazione, che prospera sui margini, sugli spigoli, sui lati.
Un suono di campanelli elettronici totalmente distorto e immerso in una coltura ambientale – come soffermarsi sull’atmosfera, sull’aria tra i corpi, sugli spazi che separano gli oggetti piuttosto che su corpi e oggetti stessi. Sugli intervalli, cioè.
Christian Caliandro
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