Where the streets have no name (V). Futuro-presente
Nuovo capitolo della rubrica ispirata a uno storico brano degli U2. Fra terre di confine e confini invisibili, il presente scorre verso il futuro, esigendo una consapevolezza tutta da ritrovare. Proprio nei giorni in cui si assiste allo sgombero della Jungle di Calais.
“At the time it sounded like a foreign language,
whereas now we understand how it works.”
Adam Clayton
I mendicanti sdraiati come oggetti di fronte alla stazione di Roma Tiburtina, che dormono nel chiasso e nel frastuono del traffico, o che rovistano nei cassonetti dei rifiuti – Gian Maria Tosatti e Alessandro Bulgini nel video camminano sulla spiaggia sterminata di Calais, battuta dal vento del Nord Europa – è quello il posto dove le strade non hanno nome, come anche questa capitale italiana che sta letteralmente andando in pezzi e in frantumi e che da mille anni è un collage impossibile, scomposto ed elegantissimo, di strati e di stili e di elementi e di zone, un insieme incoerente che si solleva e che si abbassa come il mare, e tu ti immergi in queste onde storiche, nel centro nelle stazioni fatiscenti della metro nel tessuto cadente, cascante di certi quartieri e dici: “Sto tornando a casa, casa non c’è più”.
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Nel video del concerto a Sydney (27 novembre 1993), la grandiosa tappa australiana dello Zoo TV Tour – un VHS letteralmente consumato nei miei quindici anni, visto rivisto e riascoltato non so quante volte, quasi sempre nel salotto beige di zia Giuseppina, a un certo punto di Where the Streets Have No Name – forse la migliore performance live in assoluto di questa canzone, con i megaschermi sul palco che diventano tutti arancioni all’inizio e poi l’esplosione di luce gialla che incendia l’intero stadio: la band non è mai più stata così in forma, in un vero irripetibile stato di grazia – a un certo punto, più o meno a metà canzone, sullo schermo gigante appare Bono in una ripresa di The Joshua Tree, che cammina in canottiera bianca e capelli lunghi nel deserto – Bono del 1993 vestito di nero con giacca maglietta e pantaloni di pelle lo chiama: “Hey you!” e il se stesso di sei anni prima si gira e agita la mano, i due si salutano attraverso il tempo – a un certo punto, immediatamente prima di tutta questa faccenda ben orchestrata, Bono del futuro-presente fa una smorfia strana con il naso e la bocca e si passa la mano tra i capelli sudati prima di girarsi – quel gesto, quella smorfia mi hanno sempre abbastanza sorpreso, come un punto di autenticità all’interno di tutto un dispositivo molto teatrale – e oggi, a ventitré anni di distanza, ritrovandoli su YouTube, capisco che una strana forma di consapevolezza, non pianificata, e non del tutto cosciente se è per questo, ha attraversato in quell’attimo il cantante. Una consapevolezza indefinita, eppure commovente. Il sentimento che, per quanto gli attimi siano fugaci, occupino lo spazio brevissimo di un soffio e poi spariscano per sempre, in qualche modo – allo stesso modo – alcuni episodi della vita durino per sempre. E noi rimaniamo lì anche se continuiamo a scorrere nel tempo. Dolcemente incastrati, incagliati, intrappolati…
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“People (unstoppably) crossing borders. Outlaw immigrants, refugees (named Asylum Seekers by deniers of asylum) internally displaced and stateless. Attempting to live, attempting to survive, which is less. States fight and fail to enforce borders. In the ‘Summer of Migration’, EU borders fell like Dominoes. Releasing alienated bodies in imaginary nations. Until the recent centuries of States and Colonies, humans were mostly unknown to armed bureaucracy. Today, free movement is proven possible daily, by numberless paperless travelers observing no borders at all” (Oliver Ressler, Emergency Turned Upside-Down, 2016).
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Coda: gli oggetti-opere a casa di Gian Maria. I reperti archeologici di una civiltà del futuro – oggetti di uso quotidiano ma di un quotidiano totalmente alieno: pezzi di schiuma da costruzioni in strani colori fosforescenti, un pacchetto di sigarette post-apocalittiche con dieci sizze tenute insieme da semplice carta d’alluminio; un cyberpunk poverissimo, neorealista, umano, frammenti di un’esistenza collettiva talmente disperata e insostenibile da aver generato già solide abitudini. E forme conseguenti. Il tutto su basi legnose, un oggetto accanto all’altro (stretti stretti) sul ripiano superiore di una bacheca proveniente dalle Sette Stagioni con un uccello morto dentro. È, questa, una delle mostre più efficaci in assoluto (perché non è una mostra) che abbia visto negli ultimi tempi: una mostra domestica, potente e secca perché essenziale, funzionale: vista a giugno, un mese prima che lui parta per Calais – e poi per New York – a casa sua con Napoli fuori dalle finestre, Montecalvario e poi piazza Plebiscito, il lungomare, il porto.
E questa luce biancoazzurra, tiepida, in cui tutto è immerso.
Christian Caliandro
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