Nuova portineria, nuove didascalie, illuminazione drammatica, segnaletica, panchine, futuri percorsi per ipovedenti, nuovo allestimento, “passaporto per le famiglie”, sito internet rinnovato, l’entrata ogni giovedì con ingresso a 2 euro, fino all’ideazione di una rosa di Brera che sarà impiantata nel giardino. A cento giorni dal suo insediamento, il neodirettore James Bradburne non ha perso tempo. Pragmatismo inglese, ma dall’apparenza a metà tra un flâneur baudelairiano e un dandy wildiano, ricca cultura mitteleuropea, entusiasmo e passione contagiosi, grande esperienza internazionale e idee molto chiare: Bradburne è l’uomo giusto per guidare e rinnovare Brera.
Ci accoglie nel suo ufficio con una cortesia d’altri tempi, come i suoi panciotti colorati, e ci parla del passato e del futuro di un’istituzione che conserva inestimabili capolavori. Si definisce un giardiniere, chiamato a far crescere, sviluppare e aver cura di un’istituzione tra le più prestigiose in Italia. La prima missione? Non preoccuparsi di fare grandi numeri, ma portare Brera di nuovo nel cuore dei cittadini per farli sentire orgogliosi dell’immenso patrimonio che possiedono. L’obiettivo finale? Creare un modello vincente affinché la Pinacoteca di Brera diventi un museo riconosciuto a livello internazionale come lo sono il Metropolitan di New York, l’Ermitage di San Pietroburgo o il British di Londra. La sua rivoluzione è appena cominciata.
È passato dalla direzione di Palazzo Strozzi e della Strozzina – fondazione a gestione pubblico-privato – a Brera, struttura 100% pubblica.
Dal 1949 al 1999 Palazzo Strozzi è stato un monumento statale concesso al Comune di Firenze, che lo ha gestito come un dipartimento. Il Comune ha poi fatto un’operazione, ai tempi piuttosto alla moda: ha creato una S.p.A. chiamata Firenze mostre. Una realtà privata, nata per ridurre i costi di struttura e al 100% finanziata dal Comune. Nel 2004 la struttura è andata in fallimento. Era un momento in cui dominava uno spirito reaganiano. È successa la stessa cosa in Inghilterra con la British Railway. Si trattava di una posizione ideologica, secondo la quale ciò che era privato era gestito meglio. La struttura però era finanziata al 100% dal Comune di Firenze e quindi le decisioni erano comunque influenzate dalla politica.
Nel caso di Palazzo Strozzi, questo “spirito” come si è manifestato?
Palazzo Strozzi rappresentava un luogo importante in una città ricca di collezioni permanenti, ma senza uno spazio “programmabile” dove poter realizzare mostre temporanee, eventi culturali e fare sperimentazione. Nel 2006 è nata la Fondazione Palazzo Strozzi, tra le prime realtà autonome pubblico/privato con parità nel Consiglio, con tre consiglieri nominati dal pubblico e tre nominati dal privato, rappresentanti dei principali sostenitori e di un’associazione di partner. All’unanimità hanno nominato un Presidente. Il consiglio era molto forte e disciplinato e garantiva l’autonomia del direttore e del suo staff. Sono stato il primo direttore generale della Fondazione e ho fatto scelte strategiche, con un programma triennale. L’obiettivo era indirizzare al meglio il turismo a Firenze, che viveva un aumento del turismo di massa, che non significava necessariamente un incremento dell’indotto. Palazzo Strozzi doveva diventare un luogo per un turismo di qualità e che alimentasse la vita cittadina.
Quali strategie ha messo in campo per realizzare questo obiettivo?
Prima del mio arrivo, il Palazzo era una “scatola” vuota. Attori terzi, produttori di mostre, proponevano progetti espositivi che Palazzo Strozzi acquisiva. Ho pensato che, se volevamo creare un “marchio”, dovevamo produrre autonomamente le mostre, ridando il Palazzo alla città. Abbiamo aperto un caffè, un bookshop, lavorato a una comunicazione più ampia e soprattutto abbiamo aperto la Strozzina, dedicata al contemporaneo. Per questo ho chiamato Franziska Nori, che aveva lavorato con me a Francoforte e oggi è la direttrice della Frankfurter Kunstverein. Ho pensato che dovevamo creare un centro per la cultura contemporanea con mostre dedicate. Con esposizioni di Francis Bacon, Damien Hirst, Antony Gormley, la Strozzina è diventata un punto di riferimento della cultura contemporanea, arrivando a 80mila visitatori l’anno. Era un laboratorio autonomo con mostre d’eccellenza.
E poi è arrivata Brera…
Brera è un museo con una collezione strepitosa. Qui non abbiamo bisogno di fare mostre perché sarebbe un atto di lesa maestà. L’obiettivo è valorizzare la collezione e portarla al suo massimo potenziale. Brera è dotata di un’autonomia speciale. I nostri referenti sono il Segretario Generale Antonia Pasqua Recchia e il Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. Non abbiamo più bisogno del permesso di Roma per ogni cosa. Una rivoluzione! C’è un’autonomia di gestione e possiamo essere più propositivi. L’autonomia però non è totale, perché non posso gestire il personale che fa capo allo Stato, con contratti nazionali. Ho pieni poteri sulla parte del bilancio, con il nostro conto bancario, per la prima volta nella storia del Paese, abbiamo un C.d.A., un collegio di revisori disciplinato, un comitato scientifico, ma senza un diretto accesso al personale. È comunque un grande passo avanti, che ha reso l’istituzione una struttura molto più agile.
Nuova portineria, nuove didascalie, entrata ogni giovedì con ingresso a 2 euro, illuminazione drammatica, nuova segnaletica, panchine, futuri percorsi per ipovedenti, nuovo allestimento, un “passaporto per le famiglie”, un sito internet rinnovato, persino la rosa di Brera che verrà creata nel giardino. È sufficiente per una promozione del museo all’estero? C’è una politica di promozione?
Ernst Gombrich, quando i suoi studenti gli proponevano la tesi di dottorato, faceva una lunga pausa e diceva loro: “Sai, tutto è più complicato”. L’obiettivo è far riconoscere Brera in tutto il mondo come un museo al livello del Metropolitan, dell’Ermitage, del British. Gli Uffizi è l’unico museo in Italia che ha questa “brand recognition”, grazie a una collezione straordinaria e a una storia particolare, perché è la culla del Rinascimento. A Milano c’è una mancanza di consapevolezza di cosa sia Brera, del suo immenso patrimonio e dei suoi capolavori. Per questo, ad esempio, abbiamo messo grandi stendardi all’esterno. Ora ci sono pannelli nei principali aeroporti, la pellicola sui tram, abbiamo invitato i taxisti, i portieri d’albergo, le guide turistiche a vedere le nostre collezioni. Perché loro sono gli ambasciatori del passaparola con i turisti.
Parliamo dei turisti.
Esistono due forme di turismo: la prima visita (turismo di massa), e il turismo di seconda, terza, ennesima volta. Io punto su questa forma di turismo. La realtà è che nessuno vuole essere un turista la seconda volta. Tutti vogliamo essere insider! E chi sono gli insider perfetti? I cittadini. Il nostro obiettivo è ridare Brera alla città e creare un turismo ricorrente con un impatto sulla città molto positivo. Non facciamo una mera strategia per fare numeri. La cosa che mi spaventa di più è che molti milanesi non abbiano mai visitato Brera. Se facciamo questo, tutti gli altri risultati (numeri, code ecc.) arriveranno dopo. Il nostro claim è “Fieri di Brera”. Siamo in un mondo che negli ultimi trent’anni si è impoverito. Siamo tutti rifugiati di un passato verso un futuro sconosciuto. Vorrei continuare la visione di Russoli di un museo che si deve sempre riproporre al mondo contemporaneo. Dobbiamo tornare a produrre il contemporaneo e non solo a consumarlo.
Qualità versus quantità… Passiamo ad altri tre aspetti particolarmente importanti per un museo. Prestiti, acquisizioni, affitto location. Qual è la sua politica?
Avrei aggiunto intelligenza, cortesia, accoglienza… L’identità del museo è fatta dalla sua collezione permanente. È necessaria una ragione molto convincente, scientifica e culturale, per prestare un capolavoro. La politica generale è di non prestare quei capolavori che fanno l’identità del museo, a parte casi eccezionali. A Palazzo Strozzi io stesso ho sempre dovuto spiegare al direttore di un altro museo le ragioni per cui chiedevo un prestito di una determinata opera. E chiedo lo stesso ai miei colleghi. Milano ha i suoi capolavori: Caravaggio, Raffaello, Mantegna rimangono a casa. Ovviamente non prestiamo opere troppo fragili e indichiamo sempre sul sito internet del museo le opere presenti.
Capitolo acquisizioni.
Lo Stato dà la possibilità di fare acquisizioni. Anche da parte di privati. Ci sono le donazioni e sono naturalmente pronto a fare fundraising per acquistare nuove opere. Non credo che possiamo smettere di acquistare e “fermare il treno”. Dopo la morte di Franco Russoli, alcuni canali sono stati chiusi. Milano non vuole essere solo la Francoforte d’Italia, ma la Londra d’Italia, con il suo business e la cultura.
E cosa pensa dell’affitto delle sale?
Se non intacca la missione dell’istituzione, è una forma di ricavo ed è benvenuta. Abbiamo spazi che sono utilizzabili con un canone definito. Il valore del museo e la sua immagine non potranno mai essere assorbite dal privato. Quando facciamo queste concessioni per grandi eventi, lo facciamo quasi sempre in termini di partnership. Ad esempio, abbiamo fatto una serie di eventi per il marchio d’abbigliamento cinese Giada, durante la settimana della moda. In questa occasione loro hanno dato un contributo per la nostra accoglienza per il convegno Icom. È importante che la collaborazione porti a un vantaggio reale per il museo, oltre naturalmente all’introito economico. Vogliamo legare questo tipo di finanziamento allo sviluppo e alla crescita del museo e secondo la sua missione.
Brera non è solo la pinacoteca ma è un osservatorio, un orto botanico, l’Istituto Lombardo, l’Accademia, la biblioteca, la mediateca. Quali sono le sinergie?
Sono molto fortunato perché sono arrivato in un momento di grande apertura. Appena sono stato nominato, ho incontrato Marco Galateri, Presidente dell’Accademia, e ho voluto rassicurarlo che non costituivo una minaccia. Naturalmente il Palazzo dell’Accademia non è stato progettato per 4.000 studenti. L’Accademia vuole trovare spazi alternativi ma giustamente non soluzioni che non corrispondano alla loro visione. Un giorno o l’altro dovremo sgonfiare la pressione studentesca ma non faccio pressione sul come e sul quando. Una Brera senza l’Accademia non sarebbe più Brera. Abbiamo un incontro ogni settimana con tutti i direttori e faccio fundraising per tutta Brera. Ci sono una sinergia totale e una coesione fra tutte le istituzioni. Penso a Palazzo Citterio, che ospiterà la nostra collezione d’arte moderna, ma anche un centro per la cultura contemporanea, con una forte attenzione ai nuovi strumenti, alla cultura digitale. Russoli sarebbe stato molto contento di questi sviluppi. Non possiamo smettere di essere contemporanei.
Brera conserva opere d’arte contemporanea del passato. Quali sono secondo lei gli artisti contemporanei le cui opere potrebbero essere conservate in futuro nella Pinacoteca?
Il nostro obiettivo è proprio spiegare ai visitatori che Caravaggio era il più grande artista contemporaneo dei suoi tempi. Ci sono artisti contemporanei molto validi. Personalmente penso che Anselm Kiefer sia un artista imprescindibile. Oggi vogliamo fissare il tempo, come la scommessa di Faust. Se parliamo di passato, citerei Mark Rothko, Francis Bacon, Lucian Freud. Gli artisti di oggi e del futuro studiano sotto i miei piedi [il suo ufficio si trova sopra le aule dell’Accademia, N.d.A.].
State lavorando alle nuove divise firmate Trussardi. Com’è nata la collaborazione?
Tutto il merito va a Sandrina Bandera, che ha guidato Brera prima di me. È un progetto che ho ereditato da lei. Era avviato ma era un po’ fermo. Dovevo riprenderlo perché per varie ragioni era bloccato. Stiamo finendo un lungo percorso per adeguare tutte le divise al personale. Recentemente ho incontrato Gaia Trussardi e le ho proposto di creare per noi dei foulard con gli “occhi di Brera”, immagine fatta da Franco Maria Ricci. Ha subito accolto l’idea con entusiasmo, mandandomi dei bozzetti il giorno dopo. Trovo che questa collaborazione con Trussardi sia un modello che mostra come lavoriamo bene con il privato.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
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