Nove storie sulla tappezzeria. Josef Frank e Otto Neurath
Prosegue il ciclo di approfondimenti ispirati al concetto di tappezzeria, declinato secondo il linguaggio delle pittura e della costruzione. Stavolta lo sguardo è rivolto a due amici, che condividevano una visione architettonica decisamente al passo con i (nostri) tempi.
JOSEF FRANK, L’ANTICONFORMISTA
Fu Théo van Doesburg, e non poteva essere diversamente visto il carattere sanguigno ed appassionato dell’uomo, ad attaccare con maggior veemenza Josef Frank per l’edificio da lui progettato all’interno della mostra di abitazioni del Weissenhofsiedlung a Stoccarda, diretta da Mies van der Rohe e inaugurata nel 1927. Frank ha creato “interni da femminuccia invadenti e piccolo borghesi”. “Fronzoli viennesi”, aggiunse il critico svizzero Hans Bernoulli. La critica più perfida, come riporta Christopher Long in una monografia dedicata a Frank, fu però di Paul Meller, l’assistente di Peter Oud, che, in una lettera indirizzata al suo principale, parla di architettura da bordello.
Frank era stato scelto tra i progettisti del Weissenhof per cause di forza maggiore. Era, infatti, distante sia dalle posizioni formaliste di van der Rohe e di Le Corbusier sia da quelle ultra-funzionaliste della nuova oggettività, rappresentate dal giovanissimo Mart Stam. Al suo posto doveva esserci Adolf Loos. Ma Loos aveva attaccato il Werkbund che organizzava l’iniziativa e risultava a molti antipatico e snob. Non inquadrabile per non inquadrabile, Frank era l’unico architetto abbastanza noto, sufficientemente modernista e di buon carattere, da poter rappresentare l’Austria. Pazienza che Mies disprezzasse anche lui, tanto disprezzava tutti.
UN INTELLETTUALE CONTEMPORANEO
Se osserviamo le due abitazioni abbinate realizzate da Josef Frank a Stoccarda, facciamo oggi fatica a comprendere il perché di tante polemiche. Se si escludono le finestre un po’ all’inglese, la costruzione non appare discostarsi granché dalle altre: è essenziale, priva di ornamenti, ha il tetto piano. Esprime però al suo interno una diversa filosofia abitativa che non sfuggì ai suoi critici: non era pensata come una macchina per abitare, con arredi in tubolare di ferro, magari mutuati dai vagoni letto dei treni come fece Le Corbusier, ma con i mobili di ogni giorno. Il colore predominante della casa era bianco per far risaltare le fantasie dei cuscini, delle tende, dei sofà (oggi si pensa che l’architettura del Movimento Modern fosse tutta bianca: in realtà anche i colori erano soggetti alla legge ferrea della composizione, e fare case bianche per poterci appendere i tendaggi poteva essere uno strappo a una certa idea di modernità).
Josef Frank, ebreo e viennese, non era certo un effemminato frequentatore di postriboli, era un intellettuale che conosceva bene la cultura contemporanea. Il fratello, Philipp, fu uno dei cervelli della fisica contemporanea, che Albert Einstein designò come suo successore all’Università Carolina di Praga. E, con il filosofo Otto Neurath, Josef Frank organizzò la costruzione di abitazioni sociali durante il periodo della Vienna Rossa e poi partecipò ai lavori del Circolo di Vienna, tenendovi, il 19 aprile del 1929, una conferenza sull’architettura moderna. Fu scrittore prolifico con una produzione sterminata di articoli e saggi che culminarono nel 1930 nella pubblicazione del testo Architektur als symbol.
LONTANO DAL BAUHAUS, VICINO A LOOS
Josef Frank, al pari di Adolf Loos e di non pochi amici viennesi, era scettico sul fatto che si potessero inventare nuove forme dall’oggi al domani. E sapeva bene – forse perché gli era suggerito dal contesto neokantiano che frequentava – che le forme sono simboli non riducibili a semplici dispositivi funzionali né estetizzabili oltre un certo limite. Diffidava dall’approccio del Bauhaus – dove però si recò invitato non da Gropius, che detestava, ma da Hannes Meyer, con il quale condivideva l’amore per il ragionamento scientifico – e dal minimalismo miesiano perché non credeva che il geometricamente più semplice potesse corrispondere sempre alla soluzione più funzionale. Il mondo – sosteneva – è ricco, molteplice e complesso e volerlo costringere in uno stile, anzi uno Stil, sarebbe esercitargli una intollerabile violenza. E poi, sempre in accordo con il pensiero di Loos, Frank sosteneva che le abitazioni non fossero opere d’arte ma spazi in cui la gente dovesse mettere i propri oggetti, legati tra loro da una storia e, quindi, da un universo simbolico e affettivo, non da una estetica ferrea e prescrittiva.
Josef Frank non fu uno straordinario architetto come Hans Scharoun, Hugo Häring, Erich Mendelsohn, che realizzarono edifici indimenticabili, ma fu un eccellente progettista di mobili e di tessuti. Fuggito in Svezia per scappare alle persecuzioni razziali, fu il più dotato designer della Svenskt Tenn e molti, trascurando il carattere artigianale e in fondo aristocratico della sua produzione, lo vogliono vedere come uno dei precursori della filosofia dell’arredamento di Ikea.
FELICITÀ ABITATIVA
Torniamo adesso al 1919, anno dell’ascesa dei socialdemocratici al potere, e a Otto Neurath, grande amico di Frank, che diventa il responsabile del Siedleverband, una organizzazione votata alla costruzione di appartamenti di edilizia sociale. Neurath è un omone grosso e, fino a quando li avrà, con i capelli rossi, “un Unno“, dice Margarete Schütte-Lihotzky. È sanguigno, generoso, onnivoro e appassionato di tutto, dall’economia alla sociologia, dalla fisica alla filosofia. Avverso agli slogan, capisce l’importanza di realizzare abitazioni a basso costo, che piacciano alla gente, quindi sul modello delle siedlung fatte di case a schiera e non dei casermoni pluripiano. Non si fa prendere da entusiasmi estetici. Dichiara: “La felicità degli abitanti è la misura della riuscita di ogni politica abitativa”. Per i suoi progetti coinvolge Frank, la Schütte-Lihotzky, che sarà la geniale autrice della cucina di Francoforte, e Adolf Loos (il quale, dal 1921 al 1924, sarà a capo del dipartimento della municipalità di Vienna che si occuperà delle siedlung). Inutile a questo punto sottolineare quanto dello spirito di Otto Neurath si ritrovi in Josef Frank e viceversa: dall’avversione allo stile all’idea che l’architettura debba rispondere ai desideri degli abitanti.
I PITTOGRAMMI DI NEURATH
Ciò che invece è bene evidenziare è che Neurath, colui che più tardi nelle riunioni del Circolo di Vienna interromperà ogni discorso non convincente urlando “Questa è metafisica”, come pochi è avverso alle chiacchiere e crede al potere delle immagini. “Le parole”, afferma, “dividono, le immagini uniscono”. Un lettore avvertito a questo punto capirà il nesso con il metodo ostensivo fatto proprio dai filosofi del Circolo di Vienna. Fatto sta che Neurath inventa un linguaggio per pittogrammi comprensibili da tutti. Da questi pittogrammi derivano le segnaletiche che ancora vediamo in giro, comprese le indicazioni dei bagni negli aeroporti, e le infografiche oggi rispolverate nei libri di Koolhaas, Big e MVRDV. A usare i pittogrammi di Neurath furono gli architetti dello stato sovietico e l’olandese Cor van Eesteren, che li volle utilizzare per unificare i piani urbanistici esposti nel congresso del CIAM del 1933 e così poterli agevolmente comparare. Adesso, osservate bene le tavole con questi pittogrammi e dite se non sembrano i motivi di un elegante disegno di tappezzeria. Sì, lo so, sono molto di più (e forse qualcosa di meno). Ma certo è affascinante pensare a un filo che lega il lavoro di due amici, Frank e Neurath, che non credevano alle promesse di redenzione lecorbusieriane e miravano a un mondo anti-metafisico, che o avrebbe reso le persone soddisfatte o non valeva affatto la pena perseguire. Il mondo, insinuerei, della tappezzeria.
Luigi Prestinenza Puglisi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati