Tutte le donne di Renzi alla Casa Bianca. Propaganda o manifesto culturale?
Polemica sui social per le quattro donne invitate da Matteo Renzi alla Casa Bianca, in occasione della cena con Obama. Quattro volti simbolo dell’Italia migliore, tra sport, impegno umanitario, arte, ricerca scientifica. Qualcuno lo accusa di fare mera propaganda. Molti hanno apprezzato. Certo, tornando col pensiero a Berlusconi, alle sue 'cene eleganti' e a quel G8 in compagnia della “Dama Bianca”, si stava meglio quando si stava peggio?
A CENA COL PRESIDENTE
Tra un’ospitata tv, un appuntamento elettorale, un vertice istituzionale, un summit in Europa e un incontro con il gotha dell’industria italiana, Matteo Renzi trova il tempo di volare a Washington per farsi due chiacchiere con Barack Obama. Ultima visita prima dell’addio del Presidente alla Casa Bianca. Nel momento in cui il Premier tira fuori gli artigli contro l’Europa, dimenticandosi delle maniere dolci di una volta, la ricerca di una sponda forte oltreoceano si fa più strategica. Nell’attesa, naturalmente, che il nodo delle elezioni si sciolga: quelle americane, ma anche il referendum del 4 dicembre in Italia. Tutto può accadere, nell’arco delle prossime, bollenti settimane.
Sul tavolo del rendez-vous c’è un bouquet sostanzioso: cambiamento climatico, rifugiati, terrorismo e sicurezza globale, crescita economica. E il futuro dell’Europa. Ce n’è abbastanza per un vertice lungo un mese. Non evocato, ma chiaramente al primo posto della lista, il tema delle forze militari Nato inviate in Lettonia, con un contingente di soldati italiani. Il nodo scottante del momento.
In mezzo anche una cena di gala in pompa magna – ai fornelli lo chef italoamericano Mario Batali, sul palco la pop singer Gwen Stefani – a cui Renzi non andrà da solo. Con lui un bel parterre femminile, che ha già fatto discutere. Oltre alla moglie, Agnese Landini, campionessa di stile, sobrietà e riservatezza, quattro ospiti speciali.
La sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, volto simbolo dell’eroica missione di accoglienza ai migranti, che la sua isola – insieme alla Sicilia tutta e allo Stato – porta avanti con professionalità e onore: una lezione impartita al mondo, nonostante l’isolamento, il peso economico, i disagi organizzativi e i venti xenofobi che soffiano da ogni dove. Poi, la campionessa paralimpica Beatrice Vio, 19 anni, stella del fioretto, tornata da Rio con un oro e un bronzo: colpita a 11 anni da meningite, privata degli arti inferiori e superiori, Bebe ha vinto la sua sfida, tra celebrazione della vita ed etica sportiva.
E ancora la fisica Fabiola Gianotti, già coordinatrice del grandioso progetto Atlas, dedicato all’omonimo rilevatore di particelle; nel 2013 tra le 100 donne più potenti al mondo secondo Forbes, quinta nella classifica 2012 del Time dedicata alla Persona dell’anno, dal 2014 è direttrice del Cern, prima donna ad avere ottenuto questo incarico.
Infine, Paola Antonelli, designer e architetto, una lunga carriera al MoMA di New York, di cui oggi è curatrice senior per il dipartimento di architettura e design. Il prestigioso magazine Art Review l’ha inserita nella lista delle cento persone più influenti dell’art system mondiale.
La squadra delle amazzoni renziane trova poi il suo contraltare in un quartetto maschile: i due premi Oscar Roberto Benigni e Paolo Sorrentino, lo stilista Giorgio Armani e il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone.
PROPAGANDA O VISIONE CULTURALE?
Un piccolo plotone di eccellenze italiane, dunque, al seguito del Presidente. Ambasciatrici e ambasciatori di quell’Italia che conta, che piace, che pesa e che seduce, intorno a cui Renzi continua a costruire la sua narrazione positiva, improntata all’ottimismo e a un certo patriottismo culturale. Tra eccessi di retorica e necessità vera di sostenere talento, valore.
Ed ecco puntuali le polemiche. Sorvolando sulla patetica gogna riservata a Benigni per il suo endorsement alla Riforma Costituzionale – e adesso che l’attore siede al tavolo con Renzi e Obama gli insulti fioccano, come in una gara di sputi fra hater – l’attenzione si concentra sulle quattro presenze femminili.
Intanto perché mettere l’accento sui traguardi dell’altra metà del cielo fa sempre un po’ notizia, in un Paese che alle donne riserva ben pochi posti di comando, e che in fatto di carriere o di orientamenti professionali coltiva ancora discreti pregiudizi.
Si parla dunque di belle storie, volte al merito e al talento, laddove l’essere “potenti” si identifica con la forza di battaglie etiche, culturali, esistenziali. E invece, per qualcuno, la faccenda non quadra. La parola magica è “propaganda”. Matteo, il solito furbacchione, avrebbe apparecchiato sul tavolo della White House un menu politicamente corretto, tra parità di genere ruffiana e donne-trofeo da ostentare, manco fossero prodotti tipici locali, gioielli destinati alle corti migliori, strumenti per la propria autoaffermazione. Insomma, quattro arnesi scintillanti, buoni per il venditore di pentole scafato. Una (piccola) parte dell’opinione pubblica l’ha letta così, almeno a sbirciare tra i social.
Ora, che l’enfasi pre-referendum abbia ormai travolto tutti, è chiaro. Che l’isteria dell’opposizione e quella filo-governativa siano alle stelle, è un fatto. Ma trasformare in attacco politico un fatto del genere sconfina nel patetico.
Queste donne e questi uomini sono certamente un manifesto. Non rappresentano solo se stessi e i loro successi, ma una moltitudine di altri uomini ed altre donne che ne condividono ambizioni, professioni, sfide, fatiche, onori. Il cinema, la moda, lo sport, l’arte, la ricerca scientifica, l’impegno sociale e umanitario. E ancora immigrazione, disabilità, lotta alla corruzione, legalità. Basta mettere insieme tutte queste cose e le ossessioni del governo Renzi ci sono tutte, o quasi. I fondi per il Made in Italy, la nuova legge sul cinema (con 400 milioni l’anno, a fronte degli attuali 260), la legge sul Terzo Settore, la battaglia pro Olimpiadi, la legge sul Dopo di noi e sull’Autismo, l’attenzione alla cultura e alla scuola, l’impegno per i migranti cavalcato in patria e in Europa. Un’esperienza di governo che è anche in questa mappa dei valori e delle priorità, a cui va certo aggiunta la battaglia vinta per i diritti civili Lgbt.
Con tutte le critiche possibili e i punti di debolezza da intercettare in questa o quella legge, in un dato stanziamento economico, in una data strategia o misura (dal pasticcio con gli insegnanti di sostegno di questi giorni, alla dispersione di fondi in bonus vari, a discapito di ulteriori investimenti necessari), è innegabile che il racconto di sé, l’azione politica e la visione complessiva passino da questi punti cardinali.
QUANDO A CENA C’ERANO LE OLGETTINE
E dunque, solo propaganda? Se vogliamo chiamiamola così, nell’accezione etimologica di “propagare”, “diffondere”. Oppure, adottando un timbro meno malizioso, parliamo di narrazione, parola che il renzismo ha contribuito a radicare nel dibattito politico. Ogni leader che si rispetti, del resto, ne ha una. Chi dice che la comunicazione in politica non conti, e che andrebbe persino a discapito dei contenuti, ha capito ben poco. Dei tempi che viviamo, ma anche dell’epica del potere tout court. La ricerca del consenso – nel bene e nel male – non prescinde dalla maniera di narrare e di narrarsi. E si parla del cosa e del come, combinati insieme: nei casi esemplari l’uno e l’altro si equivalgono, si assomigliano, si rafforzano.
Il linguaggio di Salvini, ad esempio, l’estetica delle ruspe, l’aggressività ostentata, la crudezza dell’eloquio, sono tutt’uno col tipo di contenuti messi in campo, dalla guerra contro extracomunitari e rom alla retorica contro i limiti della legittima difesa. E così nel caso di Silvio Berlusconi, di cui – a proposito di cene – restano indelebili metafore quelle con i Tarantini, i Lele Mora e le Ruby, insieme alle barzellette sconce, agli epiteti sessisti (il “culona inchiavabile” riservato alla Merkel fu uno dei punti più bassi), ai favori resi a escort ed avvenenti starlette televisive in cerca di un posticino al sole. Tutto molto Trump style.
E parlando di Donald Trump, come non vedere nella scelta renziana della piccola delegazione femminile, una strizzata d’occhio alla candidatura di Hillary, ampiamente giocata sul ripudio di maschilismo e razzismo, di cui l’avversario sarebbe invece degno portavoce? L’alleanza Italia-USA, in questi sgoccioli di campagna elettorale, diventa un fatto culturale e di comunicazione. Che non è poco, fra tattica e sostanza.
L’appassionato discorso tenuto a Manchester dalla popolarissima Michelle Obama resta uno dei momenti più significativi di questa corsa alla presidenza, ma non solo: secondo il New York Times si è trattato dello speech “più importante tenuto da una First Lady, da quello di Hillary Clinton all’Assemblea generale dell’ONU nel 1995”. Al centro dell’intervento proprio la questione femminile. La dignità, il valore, il ruolo e il destino delle donne, nell’America di domani. E Renzi, manco a dirlo, prende appunti.
A CIASCUNO IL SUO
Si tratta di scelte, dunque. Dove collocarsi, cosa difendere, con chi accompagnarsi. Qualcuno, a una cena con Obama, avrebbe portato la Minetti o la famosa “Dama Bianca” che nel 2010 fu accompagnatrice istituzionale al G8 di Toronto e che finì dietro le sbarre per spaccio di cocaina; qualcuno avrebbe scelto un’antivaccinista, anziché una ricercatrice del Cern, in spregio delle benedette lobby farmaceutiche; qualcun altro avrebbe ignorato il politically correct femminista e altri ancora avrebbero voluto una compagine popolare (o populista), fatta di studenti, infermiere, impiegati e pizzaioli: l’uomo comune a rappresentare la forza del medio, del normale, del qualunque. Ci sta. Delegazioni a propria immagina e misura.
Quanto a noi, giusto per diletto, facciamo altri tre nomi che avremmo visto con gioia intorno all’ambito desco. Samantha Cristoforetti, astronauta, prima donna italiana ad avventurarsi tra le galassie per l’Agenzia Spaziale Europea: 199 giorni continuativi nello spazio, con conseguente record europeo e record femminile. L’illustre scienziata Ilaria Capua, finita dentro a un’inchiesta assurda e passata dal vergognoso tritacarne giustizialista di una certa area politica: oggi, scagionata da ogni accusa, ha lasciato l’Italia e la sua sedia da parlamentare, spostandosi negli USA in cerca di tranquillità. E infine la curatrice 37enne Cecilia Alemani, da un po’ di anni a NYC, nome di punta della scena artistica statunitense, con una sfilza di belle collaborazioni istituzionali all’attivo: sarà lei a curare il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2017.
Suggerimenti non richiesti, per le prossime cene che contano. Sempre che il 4 dicembre non sia per Renzi il giorno della definitiva débâcle . In quel caso, attenderemo le future narrazioni dei Brunetta, dei Di Maio e dei Salvini. A ciascuno la propaganda che si merita.
Helga Marsala
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