“Stamattina presto ci siamo riuniti tutti in redazione. Siamo in lutto. Il nostro Paese, per ordine del presidente Putin, ha iniziato una guerra con l’Ucraina. E non c’è nessuno che possa fermarla. Pertanto, insieme al dolore, noi proviamo vergogna. Dalle mani del comandante supremo, come il portachiavi di un’auto costosa, penzola il pulsante dell’attacco nucleare. Il prossimo passo è un attacco atomico? Non riesco a interpretare in altro modo le parole di Vladimir Putin sull’arma della rappresaglia. Ma questo numero di Novaya Gazeta uscirà in due lingue: ucraino e russo. Perché per noi l’Ucraina non è un nemico e la lingua ucraina non è la lingua del nemico. E non lo saranno mai. Infine, solo un movimento globale contro la guerra può salvare la vita sul nostro pianeta”.
Sono parole diffuse il 25 febbraio scorso da Dmitrij Muratov, il giornalista russo e direttore del giornale indipendente Novaya Gazeta vincitore del Premio Nobel per la pace 2021 insieme con la giornalista filippina Maria Ressa.
LA LEZIONE DI PAOLO NORI
A leggerle il 1 marzo, in diretta sul suo canale Instagram nella traduzione condotta con i suoi studenti, è Paolo Nori, docente, traduttore dal russo, scrittore e saggista (tra i suoi titoli: Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori 2021, e I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991, UTET, 2019).
Il suo è una specie di appello, un allarme incredulo, verso la stigmatizzazione del popolo russo che si sta diffondendo in una parte dell’opinione pubblica in seguito alla scellerata invasione dell’Ucraina da parte del presidente Putin. Se essere russi può diventare una colpa della quale doversi scusare con il mondo, il primo e più illustre peccatore chiamato sul banco degli imputati è stato, in questi giorni, un russo morto centoquarantuno anni fa. Lo scrittore Fëdor Michailovic Dostoevskij. Perché l’illusione di semplificare la realtà, di appiattirla sui propri spettri moralistici e di cancellarne la complessità non si ferma sulla soglia della razionalità e della cultura. Figuriamoci su quella della morte.
Mi hanno chiesto di buttare giù la statua di #Dostoevskij a #Firenze. Non facciamo confusione. Questa è la folle guerra di un dittatore e del suo governo, non di un popolo contro un altro. Invece di cancellare secoli di cultura russa, pensiamo a fermare in fretta #Putin.
— Dario Nardella (@DarioNardella) March 2, 2022
DOSTOEVSKIJ INCRIMINATO A MILANO
Dal suo canale Paolo Nori racconta, dunque, di aver ricevuto dall’Università degli Studi di Milano – Bicocca una disarmante e assurda lettera che comunica la decisione, da parte del rettorato, di annullare il corso di lezioni su Dostoevskij che Nori aveva in programma per i giorni successivi. “Lo scopo”, è spiegato nella lettera, “è quello di evitare ogni forma di polemica, soprattutto interna, in questo momento di forte tensione”.
A questa forma di sanzione culturale hanno immediatamente reagito numerosi italiani con appelli, lettere e post sui social, finché la Bicocca ha dovuto fare dietrofront.
Tutto risolto? Non proprio. Resta, infatti, una pericolosa e ricorrente tentazione a scivolare in certe retrive forme di manicheismo iconoclasta. Lo dimostra la richiesta, ricevuta dal sindaco di Firenze Dario Nardella che l’ha respinta, di abbattere la statua di Dostoevskij nel parco delle Cascine, nel capoluogo toscano, donata dall’ambasciata russa lo scorso dicembre in occasione del duecentesimo anniversario della nascita dello scrittore.
Grandi scrittori e artisti di ogni tempo e nazione ci hanno insegnato le parole per raccontare l’umanità e la sua lotta contro il male. Fëdor Michailovic Dostoevskij è stato uno di loro. Fu arrestato e messo davanti a un plotone di esecuzione, nel 1849, per aver semplicemente assistito alle riunioni di gruppi sovversivi antizaristi. Oggi, in Russia, manifestare contro la guerra può costare la galera per cinque anni, e nonostante questo, migliaia di persone sono scese in piazza per esprimere il loro dissenso verso Putin e l’invasione dell’Ucraina. Più di seimila sono già state arrestate.
Si ripete spesso che in tempo di guerra dobbiamo restare umani: ebbene, propria dell’uomo è appunto la facoltà di distinguere, discernere, comprendere e discutere.
– Mariasole Garacci
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