Il destino di morte di Civita di Bagnoregio è l’anello di delimitazione della sua stessa vita. Non è una catastrofe che sopraggiunge inattesa, ma il sigillo impresso sin dagli albori della sua genesi. Civita nasce con la sua morte, perché sorge su uno scoglio di tufo che si muove e si sgretola costantemente. È la particolare conformazione geomorfologica di questa terra, infatti, a trasformare la morte in una promessa regolarmente e invariabilmente mantenuta.
Civita si offre, dunque, come luogo dove telos e archè si incontrano, dove la fine e il principio si richiamano costantemente. Civita vive della sua morte e muore di ciò che le ha dato vita. Ed è proprio questa mortalità così intimamente intrecciata alla vita a rendere questo piccolo paesino dell’alta Tuscia, una creatura invasa dal canto della sua finitudine.
Civita di Bagnoregio. Il paese che muore
Non è un caso che Bonaventura Tecchi le abbia donato l’appellativo de “il paese che muore”.
Siamo negli Anni Sessanta e il germanista bagnorese vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sul destino di disfacimento di questa fragile terra. Ma la storia conosce capriole inattese, salti, accelerazioni ed eterogenesi dei fini difficilmente prefigurabili. Oggi quello stesso appellativo si è trasformato in un violentissimo strumento di marketing territoriale. Un dispositivo di cattura turistica che incornicia il presente di un paese travolto da un processo di mercificazione senza precedenti. Ciò che doveva salvare, contribuisce alla sua distruzione.
In questa cornice rinnovata, anche la morte si svuota di senso. Quella morte, sacra e ritualizzata, che rappresentava l’archetipo più profondo dell’esistenza civitonica, si trasforma in una vacanza da vivere all’interno di un clima di banalizzazione e neo-folclorizzazione. Spogliata della sua imperscrutabilità, defraudata della sua aura, la morte diventa un feticcio che incipria di esotico il borgo. La sua immagine incarna l’altrove assoluto, attrattore fondamentale della fruizione turistica. Una fruizione prettamente estetica che espelle il carattere stesso dell’esperienza. Della morte, infatti, il turista non fa esperienza. Piuttosto, la colleziona come una delle tante mirabilia da riporre all’interno di moderne Wunderkammer viaggianti.
I turisti accorrono sedotti dal branding spettacolare del “paese che muore”. Cercano rovine e abbandono: frammenti di una morte miniaturizzata e accessibile. Vorrebbero respirare un’apocalisse tascabile da immortalare nel proprio cellulare. Loro malgrado trovano un paese abitato e ricostruito. Un paese completamente trasformato dall’industria turistica e dai suoi tentacoli mercificanti.
Le cifre del turismo a Civita di Bagnoregio
Alcune cifre: nell’anno che ha preceduto la forzata chiusura pandemica, Civita poteva contare su un nucleo di residenti stabili di 12 persone e su un flusso di turisti stimato dal Comune di Bagnoregio in circa un milione di unità. Sono numeri che raccontano di un fenomeno che ha finito col fagocitare l’intero paese, trasformandolo in un museo a cielo aperto a cui si può accedere solo pagando un biglietto di ingresso. Gli spazi pubblici vengono invasi dai tavolini di sempre nuovi esercizi commerciali, diventando di fatto spazi privatizzati. L’unico immobile di proprietà comunale ancora utilizzabile per progettualità collettive viene trasformato in una residenza turistica e inserito nella piattaforma di Airbnb (il sindaco, prima volta al mondo, diventa host di questo immobile). I cortei funebri pedonali vengono vietati perché entrerebbero in conflitto con il flusso di turisti. La vita è stata sepolta da un cumulo di flash. Tutto ciò che un tempo era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione, in un’immagine devitalizzata.
La vera minaccia con cui deve confrontarsi oggi Civita non viene più esclusivamente dal sottosuolo. Il rischio più grande è quello di trasformarsi in una cartolina: simulacro ed effige spettacolarizzata che, magnificandone le dimensioni pittoresche e folcloriche, finisce col mettere in vendita una intera città.
Giovanni Attili
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #72
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