Il grande dibattito che ha avvolto il turismo negli ultimi anni è una farsa. La questione della destagionalizzazione, del “deflusso” turistico verso aree meno inflazionate è una questione da convegni.
Il motivo è presto detto; se rimuoviamo dal nocciolo del problema tutti gli orpelli dialettici, resta una sola affermazione: vogliamo invitare persone ad andare in posti in cui noi non andiamo, quando non andiamo.
E fino a quando ragioneremo in termini di prodotto turistico, questa dimensione sarà destinata a restare invariata, perché, al netto di alcune esperienze specifiche, il prodotto turistico, semplicemente, non esiste.
“Vogliamo invitare persone ad andare in posti in cui noi non andiamo, quando non andiamo”
Il prodotto turistico non esiste
Quello che esiste è un insieme eterogeneo di risorse (culturali, sociali, naturalistiche) che se ben valorizzate possono divenire nel tempo un richiamo per le persone; acquisire, se ben gestite, una progressiva notorietà e crescere di rilevanza. E infine riuscire ad affermarsi come un’esperienza che sia in grado di attirare turisti non solo regionali o nazionali, ma anche internazionali.
Forse qualche esempio può chiarire meglio il perimetro della riflessione. Tra le tipologie di turismo che più si intende valorizzare rientra sicuramente quella del turismo naturalistico. La narrativa del prodotto turistico, in questi casi, induce all’adozione di comportamenti (investimenti, scelte politiche e strategiche) poco lungimiranti.
Prendiamo, ad esempio, il Sentiero degli Dei. Ora, il Sentiero degli Dei non è un prodotto turistico.
È un percorso mozzafiato che per la sua bellezza attira visitatori da ogni parte del mondo. Il prodotto turistico è, piuttosto, quell’offerta logistica (manutenzione – segnaletica – valorizzazione – comunicazione – trasporti – ricettività – enogastronomia – guide) che è a corredo di quella esperienza e che ne determina l’effettiva fruibilità.
Allo stesso modo, Firenze, Roma, Napoli, Venezia. Nessuna di tali città è un prodotto turistico. Sono città che custodiscono alcuni degli esempi più importanti della storia dell’arte mondiale. Sono posti unici al mondo. Che richiamano per la loro bellezza (che non è un prodotto turistico) migliaia e migliaia di persone che vogliono visitarle.
Malgrado tali affermazioni siano ben oltre la soglia della banalità, la narrativa del prodotto turistico che si è maggiormente diffusa nel nostro Stivale prevede, in buona sostanza, che dato che l’Italia è ovunque meravigliosa, allora se in un territorio non c’è il Sentiero degli Dei ci deve essere per forza la possibilità di crearne uno o comunque, in ogni caso, un’attrattiva che sia in grado di richiamare persone da tutto il mondo.
Si investe dunque nei sentieri, si investe nell’enogastronomia, si investe nella diversificazione dell’offerta e tutte le altre dinamiche che conosciamo bene.
Sono tutti interventi giustissimi, sia chiaro. Ma non in una logica di prodotto turistico. In una logica di offerta territoriale per i cittadini e, anche, col tempo, per i turisti.
Come può un territorio diventare attrazione?
Prima che un’attrattiva divenga turistica deve, in altri termini, essere un’attrattiva in senso assoluto, anche nell’era della comunicazione. Ciò che è essenziale è che quel luogo sia percepito come attrattivo per le persone che lo abitano, che sia identificato come rappresentativo di un determinato territorio, o di una determinata cultura, e che gli venga conferito un ruolo importante all’interno dell’immaginario e della costruzione della narrazione identitaria di quel territorio.
Ciò non significa che non possano nascere o che non siano già state realizzate delle attrattive costruite ex-novo. Si tratta però nella maggior parte dei casi di eccezioni che, per una serie di fattori, hanno raggiunto l’attenzione internazionale e sono divenute mete turistiche.
Nella maggior parte dei casi (e basta semplicemente allontanarsi non più di 30 km da ogni nostro centro urbano per confermarlo), il nostro territorio riserva delle meraviglie che sono invece sconosciute anche ai cittadini stessi.
Perché per quanto assurdo possa essere, non c’è in Italia una reale strategia di sviluppo dell’offerta esperienziale e territoriale che sia rivolta prettamente ai cittadini o ai cosiddetti turisti di prossimità.
Ed è questo il corto circuito che ci troviamo a vivere, oggi forse ancor più che in passato: agiamo sui territori per trasformali in prodotti turistici, piuttosto che per renderli territori migliori.
Se vogliamo davvero generare flussi turistici destagionalizzati e meno concentrati dobbiamo investire sul territorio, non in una logica turistica, ma in una logica di sviluppo.
Una logica esclusivamente turistica può funzionare nelle grandi città, o comunque in quei luoghi che – a prescindere – già costituiscono una meta ambita da visitatori internazionali.
“Non c’è in Italia una reale strategia di sviluppo dell’offerta esperienziale e territoriale che sia rivolta prettamente ai cittadini o ai cosiddetti turisti di prossimità”
Oltre la retorica del turismo sostenibile
Quando invece potenziamo artificiosamente un territorio come elemento turistico, creiamo una condizione di dipendenza economica e strutturale che rischia di essere pericolosa per il territorio in sé.
Si ipotizzi che ogni anno il Governo abbia la facoltà di veicolare grandi flussi turistici verso determinate località. Si assisterebbe, chiaramente, a un incremento considerevole dell’offerta, ma tale offerta sarebbe estremamente delicata: basterebbero due anni di minori afflussi per vedere calare la demografia d’impresa, con tutto ciò che questa condizione implica.
Se vogliamo davvero fare in modo che il turismo si destagionalizzi, e si fluidifichi, dobbiamo comprendere che stiamo chiedendo a un cittadino cinese, giapponese, canadese, o di qualsiasi altra parte del mondo di venire in Italia in inverno, così come stiamo chiedendo loro di non visitare il Colosseo, gli Uffizi, o qualsiasi altra superstar del nostro Patrimonio Culturale, ma di andare altrove, che sia in campagna, nelle periferie, in collina.
Possiamo farlo. Ma possiamo farlo soltanto se in inverno, e lontano dalle città, ci sono delle esperienze a cui noi italiani non siamo disposti a rinunciare.
Peccato che raramente si incontrino i grandi retori passeggiare in inverno, dopo essere arrivati con il trasporto pubblico, per le strade sterrate che conducono a Monterano.
Pensiamoci.
Stefano Monti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati