La Venere degli stracci a Napoli. Fragilità e potenza di un’opera in fiamme

Il caso della Venere di Pistoletto, opera iconica reinventata più volte e oggi ripensata per Napoli, in una versione oversize non troppo convincente. Riflessioni tra arte pubblica, simboli e significati, nel rapporto tra opere, realtà e storia.

Era una cosa che poteva accadere. Le opere d’arte diffuse fra piazze e strade vivono di luce e d’aria, di occhi sorpresi o distratti, di gesti irreverenti e innamoramenti, di casi, di passi, di sfregi, di incastri, di piogge, di traumi, di illuminazioni. Esposte agli eventi nel modo più radicale possibile. A volte calate dall’alto come corpi estranei, altre partorite nel solco di attenti processi partecipativi. Nei casi migliori capaci di risuonare con i luoghi grazie a progettualità accurate, ispirate. Segni, presenze, come frequenze laterali nel solito rumore bianco delle città: sospese, appese, offerte, condivise, imposte, dischiuse. Con tutta la violenza e la fascinazione che ne viene.

Il rogo della Venere degli stracci di Napoli, 2023
Il rogo della Venere degli stracci di Napoli, 2023

La storia della Venere degli Stracci

L’ultima Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto si è inabissata in una coltre di fiamme, nel cuore di Napoli. Divorata da un incendio, all’alba del 12 luglio, a nemmeno due settimane dalla sua inaugurazione. Si trattava di una nuova versione del capolavoro originario, vecchio ormai 56 anni. Era il 1967 quando l’artista, destinato a diventare voce influente del neonato movimento dell’Arte Povera, presentava la sua creatura: una copia in cemento (imbiancata e lucidata con polvere di mica) della neoclassica Venere con pomo di Bertel Thorvaldsen (la cui prima versione del 1805 è custodita al Louvre), a sua volta ispirata alla leggendaria Afrodite cnidia di Prassitele (360 a.C.), andata perduta e nota solo grazie a diverse copie romane superstiti.
Alta circa 130 cm, l’immacolata Venere contemporanea dà le spalle al pubblico, volgendosi verso un cumulo di stracci che quasi la contiene, giungendole fino al capo e incombendo come una montagna, un ammasso di detriti, un invalicabile, variopinto, caotico bastimento di scorie non più umane. Un elogio del classico, del bello ideale, dell’equilibrio apollineo, del logos e dell’armonia; ma anche una rappresentazione dell’istinto, della miseria, del decadimento, dell’imperfezione, della fragilità. E ancora l’immagine della storia, del mito e della memoria, strumenti per rifondare e nobilitare il reale, fin nei suoi aspetti più crudi, contingenti, effimeri, degradati, banali.
La versione originaria è oggi conservata presso la Fondazione Pistoletto di Biella. Molte altre ne sarebbero nate, già all’indomani del suo debutto: quelle realizzate con calchi in gesso, quelle lievemente più alte, quella rivestita d’oro, quella in marmo scolpita da artigiani toscani. Tra prestigiose collezioni e importanti musei internazionali, le molte variazioni sul tema hanno incrociato gli sguardi di migliaia di visitatori nel mondo.

Afrodite cnidia, copia romana di Palazzo Altemps
Afrodite cnidia, copia romana di Palazzo Altemps

La Venere degli stracci di Napoli


Quella collocata nell’estate 2023 in piazza del Municipio, incorniciata dai bastioni del Maschio angioino, dai vari edifici storici e dallo spettacolo del Vesuvio in lontananza, è una specie di titano, una gigantessa precipitata lì da chissà quale fiaba, con il suo altrettanto ingombrante carico di stracci e di miserie. Era stata realizzata nell’ambito di “OPEN. Arte in centro”, programma d’arte pubblica lodevolmente sostenuto dal Comune e curato dal critico Vincenzo Trione (docente allo lulm di Milano, firma del Corriere e Consigliere culturale dell’amministrazione partenopea): un festival per valorizzare siti storici cittadini, innescando dialoghi temporanei con opere di grandi autori.
La corpulenta Venere non era stata accolta, però, con entusiasmo unanime. Dubbi, travisamenti, e per qualcuno il sospetto di una critica a Napoli e ai suoi aspetti più controversi, tra povertà e criminalità. Niente di troppo anomalo. Che espressioni della ricerca artistica contemporanea non incontrino sempre il favore delle folle, quando compaiono in spazi comuni, è cosa non rara. Vuoi per la naturale vocazione concettuale di molte opere, non sempre così immediate e di facile comprensione; vuoi per l’assenza di adeguati programmi di informazione e di attività per il coinvolgimento dei cittadini; vuoi perché a diventare subito popolare è spesso ciò che nasconde il germe dell’ovvio, della ruffianeria, dell’illustrazione e della didascalia.
A volte, però, accade che un’opera non funzioni davvero. E che questo, in qualche modo, venga diffusamente e istintivamente percepito. Accade, ad esempio, che si trovi ad aggredire un luogo, non inserendovisi con naturalezza, non potenziandolo, non rispettandolo. E che non inneschi processi capaci di liberare esperienze intellettuali o emotive, epifanie spettacolari o sottili, efficaci sintesi simboliche, occasioni di identità e di memoria collettiva.
Era il caso della Venere oversize? In parte sí. Un progetto poco riuscito, nonostante le buone intenzioni e un autore con una storia indiscussa. Questo simulacro fuori scala, questa ennesima copia inutilmente gigantesca, assomigliava più a una trovata scenografica, a un giocattolone alieno, calato dall’alto per ribadire se stesso, volendo a tutti costi spettacolarizzarsi e finendo con l’assomigliare a una versione goffa di sé. Tutto troppo. E senza sufficienti ragioni, a parte l’estrema imponenza della piazza con cui dover rivaleggiare, scegliendo un banale gigantismo: ma perché? Era la collocazione necessaria e giusta?
Persino là dove la verità e il rigore del progetto artistico avrebbero dovuto prevalere, ha vinto la facilità di una scorciatoia: sotto lo strato di indumenti si nascondeva – come rivelato dal fuoco – un’impalcatura in ferro, uno scheletro su cui poggiavano, con un trucco elementare, i pochi stracci necessari a simulare la catasta. Trovata che aumenta quel sapore di posticcio, di gratuito.

Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci, 1967, Fondazione Pistoletto, Biella
Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci, 1967, Fondazione Pistoletto, Biella

Il rogo della Venere in piazza Municipio

Nulla c’entra tutto questo, naturalmente, con la combustione che ha divorato la scultura, tra l’indignazione di tutti. Un atto vandalico deprecabile, che nelle ore subito successive aveva prodotto una cascata di ipotesi. Chi sarà stato? Teppisti del web, alle prede con una challenge iconoclasta? Un violento, un piromane? L’autore di uno stupido gesto di contestazione contro l’amministrazione? E se fosse stato invece il caldo, semplicemente, a far ardere i panni rinsecchiti e cotti dal sole? E le responsabilità del Comune, invece? Non sarebbe stato necessario un servizio di vigilanza costante, magari un sistema di dissuasori per scoraggiare il transito a distanza ravvicinata? A queste ultime considerazioni Trione risponde con un “no” secco: l’arte pubblica è fatta per la strada, per le persone, per fondersi con il paesaggio urbano, liberamente. E in effetti – al netto della leggerezza relativa ai tessuti non ignifughi – un approccio securitario, fatto di vincoli, di ostacoli, di controlli serrati, è così difficile da far convivere con l’idea di una fusione a caldo tra spazio pubblico, intuizioni creative, immaginari, identità plurali, gesti, sguardi, territori, architetture. I rischi esistono, ma vanno accolti. “Penso che Napoli sia una città incattivita, ha risposto in modo simbolico con una violenza simbolica“: parole severe, dettate certo dallo sgomento e dal senso di sfiducia.
E però, alla fine, il responsabile è stato identificato. Un clochard di circa 30 anni, beccato grazie alle telecamere. Forse un po’ matto, forse un delinquente, magari solamente un tipo sbadato, trovatosi incautamente a gettare una sigaretta accesa in direzione della montagna di tessuti. Denunciato, dovrà chiarire dinanzi agli inquirenti. Ma il danno è fatto. E una cosa è certa: non c’entrava Napoli, non c’entravano i ragazzini con le loro sfide social, non c’entrava il quartiere, né nessun atto organizzato di rappresaglia, di offesa, di attacco all’arte o alle istituzioni. Il caso, semplicemente. Sarebbe potuto accadere ovunque. Era, del resto, un’opera pensata come “indifesa“, ha spiegato Pistoletto: “Quasi una vita in mezzo alla vita degli altri“, che come tutte le vite era fragile, esposta, non eterna, non corazzata. Immagine seducente.
Il rischio c’era”, continuano a ripetere tutti, ma non si poteva prevedere un epilogo così violento. E adesso, ci tiene a dire il sindaco Manfredi, sarà lanciata “una raccolta fondi per far in modo che questa ricostruzione avvenga anche con una partecipazione popolare”. Più coinvolgimento delle persone, meno pericoli da mettere in conto.

Arte pubblica, fiamme, simboli e significati

Eppure, a pensarci bene, è proprio quella fragilità ad aver lasciato un segno singolare, ad aver rivitalizzato un’opera forse fuori posto, infiacchita da una ricontestualizzazione non azzeccata. Quel rogo è stato, involontariamente, un attivatore di senso, un detonatore di significati, l’atto conclusivo di un teatro dell’imprevisto, del tragico, dell’alea.
La Venere andata in fumo, scivolata oltre l’involucro di questa (debole) versione, torna con forza a coincidere con il proprio significato originario, a essere concetto, idea manifesta, simbolo e inveramento del conflitto tra caos e ordine, tra misura e dismisura. Nonostante l’inefficacia dell’attuale soluzione formale. Evocazione pura di una dialettica esistenziale che, nei fatti e lungo la linea della storia, diventa cronaca, accadimento, scandalo, esercizio di disequilibrio e di tensione, vita vissuta. Fin nelle spire di un rogo.
Apparterrà per sempre, la Venere napoletana, all’implacabilità del fuoco e alla potenza di un evento involontariamente performativo, che è già memoria sedimentata dell’opera stessa. Ce ne ricorderemo nel tempo, ne faremo presto nuova icona. Un’opera risignificata dal destino, dall’epilogo incendiario. Distrutta e risorta per riassomigliare a se stessa, alla propria matrice. Ha ribadito Pistoletto, in una sua commossa testimonianza, che nella Venere degli stracci si racchiude il dualismo tra “ragione ed emozione“, tra “la bellezza senza fine e il degrado continuo“, una dicotomia che cerca continuamente “un’armonia, un bilanciamento“. La Venere è allora occasione di “rigenerazione” di quei detriti “fisici, intellettuali, morali, politici“, accumulati da “una società stracciona“: l’incendio di piazza del Municipio sarebbe un esempio di “autocombustione del lato peggiore dell’umanità“.
Ora, posto che l’idea di residuo, di detrito, di informe, di ultimo e di sommerso, non coincide semplicisticamente con la parte negativa delle cose – suggerendo, nell’intreccio tra luce e ombra, varie altezze e profondità interpretative – resta questa idea interessante dell’”autocombustione”, della vampa generata dal reale, che inghiotte il reale stesso, evidenziandone il côté più oscuro, magmatico, perturbante, incontrollato. La dialettica incarnata dalla Venere, l’idea dell’opera, la sua essenza concettuale, sono riesplose in tutta la loro forza, offrendo un racconto che ne declina gli impliciti significati, attualizzandoli, ampliandoli, ancorandoli al presente, facendone visione ulteriore.
Quel che è accaduto è allora figlio del caso ma è anche la dimostrazione di come la realtà, con le sue logiche segrete, con le sue asprezze e la sua dose di tragedia, corra incontro alle opere che abitano lo spazio pubblico e che, fuori dalle mura del museo, investono migliaia di impreparati fruitori. Una realtà che risponde, in certi casi, con ancor più incisive aggressioni. Intemperie, crolli, vandalismi, disastri, naturale consunzione, indifferenza. 
Cambiano gli spazi, risignificati, attivati e risimbolizzati dalle opere d’arte. Ma cambiano anche le opere stesse, corpi sensibili e mutanti, nell’incontro con gli occhi degli altri, con gli eventi, con la storia, con gli accidenti, con le linee terresti e le prospettive aeree. Vive, fin dentro la propria sparizione. 


Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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