La sfida tra Elon Musk e Mark Zuckerberg. Abbiamo davvero bisogno di visibilità?
Non serve gridare all’americanata per criticare l’evento mediatico tra i due tycoon, che forse si terrà in Italia in una “location epica”. Basta guardare ai flussi turistici che tendono sempre più al sovrasfruttamento dei luoghi. La potenza incrociata di Meta e X rischia di aggravare il problema
“Americanata” e “pagliacciata” sono due tra le parole più utilizzate per contestare la disponibilità del governo italiano ad ospitare la sfida di lotta libera tra Elon Musk e Mark Zuckerberg in una “location epica” dell’antica Roma (che però non sarà il Colosseo per esplicita esclusione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano).
Musk vs Zuckerberg e altre americanate in Italia
Non occorre essere oppositori del nuovo corso politico per riconoscere che il rischio del kitsch in un simile evento (che tecnicamente possiamo definire di sport, anche se con le pinze) sia alto, ma trattasi appunto di un rischio, non di una certezza, almeno finché maggiori dettagli organizzativi non saranno rivelati. Va registrato peraltro che gli stessi strali non si sono levati tutte le volte che le nostre città più famose al mondo, in primis Roma e Venezia, hanno fatto da set a mega-produzioni hollywoodiane quali Mission Impossible, 007 o Fast & Furious: non erano forse anche quelle, in un senso perfino più letterale cioè cinematografico del termine, delle “americanate”? Eppure piace a tutti vedere i Fori Imperiali o i canali veneziani in epiche scene di inseguimenti tra villain che minacciano il mondo ed eroi, a volte super, che il mondo invece vogliono salvarlo; per tacere dei milioni di euro che questi film portano sul territorio, cosa che certamente avverrà anche in occasione del prossimo capriccio dei due magnati/rivali dei social network.
Un’offesa al patrimonio culturale?
Dunque il metro dell’americanata forse non è il più adatto per giudicare l’evento, a meno di non voler ammettere che Musk e Zuck, per loro stessa natura di miliardari digitali a stelle e strisce così lontani dalla nostra antica cultura mediterranea, ci siano invisi a un livello socio/antropologico (eufemismo per dire che non ci vanno per niente a genio per il loro stile personale).
Se tralasciamo quest’ultima lettura più soggettiva, che probabilmente trascurabile non è, la valutazione dovrebbe incentrarsi su un calcolo tra costi e benefici, laddove i secondi sono abbastanza chiari in termini economici (al di là dell’ammontare preciso), mentre i costi non possono essere quelli paventati dagli snob a mesi alterni. Non c’è nessuna offesa di principio al patrimonio della Nazione – per usare un termine caro al ministro – nel concedere, ad esempio, l’Arena di Verona o l’Anfiteatro di Pompei come cornice di un ring tra due odierni tycoon, altrimenti dovremmo chiudere i nostri confini a qualsiasi progetto cinematografico straniero che sia meno culturalmente impegnato di un film d’essai. Forse sarebbe questo il vero sovranismo culturale, ma teniamocene pure alla larga.
La sfida tra Musk e Zuckerberg e il rischio di overtourism
Piuttosto, vale la pena di criticare l’evento mediatico ascrivendo tra i suoi costi ciò che i più fanno rientrare tra i benefici, ovvero la promozione turistica del nostro Paese nel mondo, riflesso e conseguenza dell’effetto pubblicitario globale. In un’epoca di turismo di massa tale da mettere sotto pesante stress la capacità ricettiva dei nostri luoghi di cultura già oggi più rinomati, in un’era di fruizione quasi puramente distratta e disinteressata delle opere d’arte e del paesaggio, tranne che per immortalare questo o quell’angolo in un selfie sempre uguale da postare sui social (quei social che i due contendenti posseggono), siamo sicuri di non aggravare ulteriormente il problema? Davvero le nostre bellezze ed eredità storiche hanno bisogno di altra promozione, altra pubblicità, altro richiamo, ancora? E questo, proprio in un’estate in cui il turismo dall’estero ha fatto il pienone, a ribadire che, forse, più che gli stranieri serve rimettere in moto gli italiani, ma per altri motivi e non certo per la scarsa promozione.
Sorge quindi il dubbio che non sia un investimento così saggio, per il governo, associare un palcoscenico archeologico limitato nello spazio (non sarebbe semplicemente una città come nei film, ma una location ben precisa) a uno show che sarà visto da centinaia di milioni di persone, probabilmente miliardi. Qui non entrano considerazioni di gusto, né si intende sovradimensionare quel rischio del kitsch di cui dicevamo all’inizio: magari l’organizzazione sarà davvero rispettosa “del passato e del presente dell’Italia”, come ha promesso il patron di X, e lo spettacolo sarà meno peggio di quanto si pensi…
L’Italia non ha bisogno di ulteriore esposizione mediatica
A preoccuparci dovrebbe essere il rafforzamento di una tendenza al sovrasfruttamento del patrimonio artistico e culturale italiano, cioè lo stesso problema cui le varie amministrazioni stanno cercando con scarso successo di porre rimedio, tra accessi a numero chiuso, redistribuzione dei flussi e delle presenze (sì, ma come?) e rompicapo simili. Non si può lamentare che certi luoghi sono diventati invivibili, spingere per uno slow tourism più consapevole e sostenibile sotto tutti i punti di vista, e poi insistere su un modello di marketing – l’instagrammabilità – che va esattamente nella direzione del passato, per di più con la potenza di fuoco coordinata dei due più grandi social d’Occidente.
Il ministro Sangiuliano, e la premier Meloni, quindi, riflettano bene. Se l’obiettivo è incassare le generose donazioni benefiche di Musk e Zuck, e portare un po’ dei loro soldi anche sui territori interessati dall’organizzazione dell’evento, fanno certamente bene a non farsi frenare da chi ci vede un attentato alla sacralità della storia e al valore della cultura. Se invece l’obiettivo è quello di “fare pubblicità” al nostro Paese nel mondo, c’è da temere che siano sulla strada sbagliata. L’Italia non ha (più) bisogno di pubblicità. O, meglio, avrebbe bisogno di un diverso tipo di pubblicità, analogica e non digitale. Utopia.
Marco D’Egidio
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