Negli ultimi quarant’anni sono stati numerosi i tentativi di mettere a reddito i beni culturali italiani, attraverso politiche che ne hanno svilito l’importanza e mercificato il valore, spesso accompagnate da dichiarazioni e neologismi che evidenziavano ogni volta l’obiettivo di fondo di monetizzare i nostri “giacimenti culturali”(1).
La “cultura petrolio d’Italia”, “la cultura come volano” economico del paese, sono alcuni dei luoghi comuni che abbiamo sentito tante volte e spesso proprio da chi ha avuto incarichi di responsabilità in questo settore.
Il circo del turismo italiano
L’Italia, un meraviglioso paese da visitare, fatto di “borghi”, città d’arte, con il maggiore numero di siti Unesco al mondo ma senza più abitanti, se non gli animatori e le comparse di un grande circo turistico che si autoalimenta fino all’implosione, fino a quando questi meravigliosi luoghi non saranno più vivibili e quindi saranno desertificati, come d’altronde già accaduto durante la pandemia.
Uno scenario paradossale e provocatorio, certamente, ma non molto lontano dalla realtà, se pensiamo alle più importanti “città d’arte” italiane, ovvero Firenze e Venezia, oppure ai paesi più noti di Toscana, Liguria, ad esempio.
La tanto ricercata messa a valore della cultura è arrivata, finalmente, non tanto attraverso la cartolarizzazione degli immobili (vedasi Italia Spa del Ministro Urbani degli anni 2000) ma con l’industria turistica che ha ripreso dopo la parentesi pandemica a invadere città e paesi senza sosta, con buona pace anche degli impatti dannosi sull’ecosistema.
Ma il turismo è l’unico problema che abbiamo?
Turismo, capitalismo e real estate
Il turismo è un fenomeno globale, una industria che impatta pesantemente sul territorio italiano in termini di strutture e infrastrutture, condizionando i costi immobiliari grazie alle nuove forme di capitalismo mascherate da sharing economy che hanno contribuito in maniera determinante a trasformare un numero importante di abitazioni e bed and breakfast (qualche giorno fa a Venezia il numero dei posti letto ad uso turistico ha superato quello dei residenti). Il turismo, dunque, è una industria e, come sostiene Marco D’Eramo(2), come industria andrebbe regolata dallo Stato, con politiche di contenimento e regolamentazione(3). Il turismo è una industria che agisce in sostituzione di altre filiere, ed è lì che si nasconde il vero problema, nell’assenza di politiche di sviluppo e di produzione economica e sociale che possano diversificare gli usi dello spazio urbano. Il disequilibrio strutturale si genera nei casi in cui si sceglie il modello della monocoltura turistica, che agisce intensivamente soppiantando il resto delle attività economiche e sociali o trasformando il resto delle attività a filiere collegate al turismo.
La gourmet gentrification
In questo senso, anni di comunicazione ed educazione al consumo alimentare viziati da un approccio estetizzante e glamour hanno determinato la cosiddetta gourmet gentrification, trasformando interi quartieri in luoghi di somministrazione.
Dal punto di vista culturale e artistico, molte operazioni paraistituzionali di entertainment e marketing territoriale stanno trasformando paesi più o meno anonimi in parchi a tema fiabesco, magico, misterioso, mortifero. Soluzioni a breve termine per entrare nelle rotte dei tour organizzati, lifting buoni per qualche pagina Instagram, dove operazioni di street art o di arte pubblica di dubbio gusto possono acchiappare like e follower. Dietro a tutte queste operazioni spesso si nasconde una specie di necrofilia, un fascino per rivendicare la fine del proprio paese come luogo di vita (città fantasma, che muore etc.) e aprire una nuova stagione di compiacimento della morte dei luoghi, dell’evocazione delle sue esequie attraverso narrazioni costruite a tavolino.
L’impoverimento dello spazio pubblico
Tutti questi processi, intrecciati e collegati, contribuiscono all’erosione degli spazi comuni, all’espulsione dei residenti e delle realtà culturali e sociali meno consone alla favola della città d’arte, a quei centri culturali, circoli arci o festival che provano a mettere in crisi attraverso l’aggregazione e la programmazione culturale la concezione degli spazi urbani come luoghi decorati e telesorvegliati. Il decoro intende le città come scenari in cui non c’è spazio per le differenze e le marginalità e tutto questo non fa altro che alimentare le disuguaglianze sociali.
Il ruolo dei beni storico artistici e paesaggistici dovrebbe essere quello di concorrere a definire una città per come si è trasformata nei secoli, per come le comunità hanno deciso di abitarla e l’arte è stato sempre il meccanismo di rappresentazione di cui le società nelle diverse epoche si sono dotati. Non città d’arte, ma città, dunque, perché nelle opere d’arte e nelle sue architetture insiste il patto fondativo di quelle città, non il suo panorama da cartolina, ma il progetto stesso di città.
Overtourism: una difficile inversione di rotta
Quali proposte per invertire la rotta?
Aldilà di uno scenario che mi sembra difficile da invertire, soprattutto in tempi come questi e dopo operazioni di marketing come Open to Meraviglia, in cui la banalizzazione del paesaggio e la mercificazione del panorama assumono dimensioni triviali, gli interventi auspicabili dovrebbero valutare la sostenibilità dell’impatto turistico, rispettando gli indici di capacità di carico di una località turistica per evitare la saturazione e dunque la competizione tra ospitati e ospitanti. Oltre a questo, una serie di indicazioni utili e condivisibili per disciplinare in maniera integrata i flussi, l’abitare e le politiche urbane le ha già proposte Bertram Niessen su questa testata.
Dal punto di vista dei soggetti imprenditoriali, alcune start up che operano sempre attraverso piattaforma hanno iniziato a reinvestire utili su progetti di responsabilità sociale sul territorio, adottando dunque un atteggiamento di attenzione alla vitalità del territorio e delle sue dinamiche sociali e culturali residenziali.
A mio avviso però è un tema su cui sta crescendo (lentamente) la consapevolezza che sia una priorità politica da porre tra le questioni politiche, sociali e culturali da affrontare pubblicamente e su cui aprire vertenze trasversali tra diritto all’abitare (come già fatto nello sciopero studentesco delle tende) e alla tutela dell’ecosistema, diritto allo spazio pubblico e allo spazio civico.
La riqualificazione dello spazio pubblicoBisogna presidiare le trasformazioni urbane, rivendicare processi condivisi, contestare quelle riqualificazioni che, seppure partendo da principi di risanamento dei tessuti urbani, anestetizzano gli spazi pubblici per convertirli in luoghi ad uso e consumo del turismo, consumando ulteriormente il volume della città pubblica.
Dal punto di vista degli operatori culturali e degli artisti, penso sia arrivato il momento di porsi il problema della responsabilità di operare per favorire l’inversione di questi processi e quindi rifiutare (difficile in un sistema economico poverissimo) di prestare le proprie intelligenze ad operazioni fatte esclusivamente a uso e consumo della costruzione di un brand territoriale.
L’arte e la cultura, in sostanza, possono ancora focalizzare criticamente il problema e condurci fuori da questa distopia?
Marco Trulli
[1] Definizione usata negli anni ’80 dal Ministro della Cultura Spadolini
[2] Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo da Mark Twain al Covid-19, Feltrinelli ed.,
[3] Provvedimenti più o meno efficaci sulla limitazione degli affitti brevi sono già in vigore ad esempio in Germania, Olanda, Spagna e a New York)
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