Spazio pubblico, turismo di massa, gentrificazione. Le mille isole della città di Roma
Roma è un arcipelago. Roma rimane solo una parola, non uno spazio da attraversare e popolare. Lo sguardo sulla città intera, faticosamente, felicemente raggiunto nei decenni, è scomparso. Il racconto di Stefano Ciavatta
Come le colonne opache per le troppe impronte, le puntuali estive citazioni de Il Sorpasso, Un sacco bello, Caro diario,fondali modernissimi dell’Estate romana – unica stagione italiana brandizzata – sono sembrati stavolta miti esausti, sfiancati dall’accanimento dei continui amarcord. La distanza dai film si è fatta adulta, 61-43-30 anni, e mi accorgo che il feticcio delle strade e piazze deserte, “senza i romani”, ieri cuore dei tre film, è diventato lo scenario della città per soli turisti, dove quel “senza i romani” è aggiunto oggi con cattiveria, come un peso che va tolto. La città per turisti ha fame di fondali e io da romano da generazioni so di finire spesso dentro il suo green screen, comparsa lasciata di comodo o tolta per fastidio. Avrei diritto di parola se fossi un residente privilegiato della città per turisti, ma non ce l’ho come abitante generico, nonostante i mille legami dal Campidoglio al Gra, perché gli abitanti di Roma stanno al fondale dell’over tourism come i sindacati al capitalismo. Quando si dice fare il Grand Tour con la Roma degli altri. Te ne accorgi nei dibattiti sul sovraffollamento turistico, che usano una certa idea di Roma, confondendo piani e pesi specifici della città, vista di base come luogo extraterritoriale del mondo e cartolina ferita, poi messa a paragone con borghi abbandonati e le maximum city orientali. “Quanto spesso pensi all’Impero romano?” si chiedono in molti, io tutti i giorni come del resto i fondi immobiliari.
La Roma non gentrificata
Ad altre latitudini, focalizzarsi sulla gentrificazione non rende l’idea del collasso e dello sfilacciamento dello spirito comunitario nel resto della città. La Roma gentrificata è al momento esaurita. Altre gentrificazioni, su altri quadranti, non si sono prodotte per morfologia, cesure urbane e mancanza di collegamenti. Tipo il Trullo, borgata isolata nata nel 1939, staccata da Magliana, Portuense e Monteverde, mal collegata con l’università Roma Tre Oltretevere. Fino a tutti gli anni ‘80 percepito come “lo sprofondo”, di nome e di fatto – a Roma però non esistono ghetti – ha conservato l’identità, la nomea si è storicizzata, sulla mappa è venuto a patti, come altri, con il resto della città che gli è cresciuta oltre. Eppure, oggi il Trullo è tornato distante perché è Roma nella sua stasi che è tornata a essere sfilacciata tra le linee. E ogni quartiere deve fare i conti con le proprie forze, i limiti logistici (qui la feroce assenza di una metro che da Marconi vada fino a Corviale) e una nuova solitudine. Giorni fa a viale Ventimiglia, una specie di grande piazza allungata in mezzo ai lotti, è andato avanti il taglio previsto dei 71 olmi presenti, in vista della riqualificazione dello spazio pubblico. Il viale torna così drasticamente alle origini, assolato, con piccoli fusti in sostituzione, fragili, smilzi, assediati dai bisogni acidi dei cani. Ecco che un intervento straordinario diventa desolazione quotidiana. Quando vedo una cittadina arrampicarsi per protesta su uno degli olmi manca solo la foto di Tano D’Amico, come a San Basilio nel 1974.
Si potrebbe chiedere aiuto ad Angela, la padrona del grande negozio cinese An Store che soddisfa qualsiasi richiesta, almeno secondo il format che spopola sui social. Sorge a Ostiense sulle ceneri dei magazzini Gina Lebole, chi li ricorda? Abbigliamento grandi marche, corsie coloratissime, commesse in grembiule, a disposizione e d’obbligo. Invece il nuovo negozio non ha nulla di straordinario, anzi un’aria dimessa. La soap opera tra Angela e l’esigente cliente Bella Fisica ha avuto un crac estivo, un litigio. Per fare pace Angela ha regalato dei fiori, fiori finti. Con tutti i fiorai aperti in città, tra le rare cose rimaste aperte anche di notte – le edicole non ci sono più – meglio i fiori finti. La città là fuori non è più una risorsa, neanche per finta?
Roma e lo spazio pubblico
Spazio pubblico va considerato anche l’immaginario sulla città. Anche qui ci sono speculazioni, palazzinari e abusi edilizi.
L’estate scorsa ho girato per la città in preda a decine di incendi, in un giorno anche dodici, dalle zone dove sono nato e dove vivo, fino ai punti più lontani. Nulla come quegli incendi visibili ovunque, un ripasso non richiesto della toponomastica, mi ha restituito l’idea integrale dell’urbe. Tutti sotto scacco, una città incustodita a ogni latitudine. Un anno dopo, nel film Adagio, terzo e ultimo capitolo della trilogia criminale romana di Stefano Sollima, gli incendi diventano l’orizzonte di una “Roma disperata e crepuscolare”, l’ennesima pennellata del fondale, un’apocalisse rivendicata. La fiction su Roma ha bisogno del cupio dissolvi, non gli interessa davvero la città, probabilmente immaginata da qualche parte, al sicuro nella sua purezza, magari dentro il Deposito globale di semi nel remoto arcipelago artico delle isole Svalbard.
Post lockdown ogni città ha dovuto attingere agli anticorpi, le energie di riserva, confidare nel carattere. Ma venendo da un decennio terribile, alla fine del coprifuoco Roma non ha trovato nessuno scivolo per ripartire, nessun nuovo servizio, infrastruttura. Un po’ per questioni di lavoro, un po’ per sguardo laterale, mi accorgo che nel frattempo, tra urgenze e aspettative, tra ripresa a km0 e velleità di progettualità, si è intaccata una coordinata di Roma, fino a ieri risorsa esibita. C’è una fetta trasversale, dalle nuove leve agli addetti ai lavori, per cui Roma rimane solo una parola, non uno spazio da attraversare e popolare. Lo sguardo sulla città intera, faticosamente, felicemente raggiunto nei decenni, è scomparso. Si assolvono con “Roma è un arcipelago”, formula che valeva anche un secolo fa. Il punto è che molte isole, compartimenti stagni, recinti, come pure festival, aperture, anteprime, non si parlano, mescolano, desiderano. Come se là fuori ci fosse un oceano cupo e periglioso, e non una città che quando si tratta di saziare la fame è disposta ad affrontare qualsiasi distanza. È la fame per Roma che è messa in discussione. C’è ancora voglia di far entrare Roma nelle cose che succedono?
Roma, secondo lo youtuber Cicalone
Quando si dice che mancano le figure di raccordo, di mediazione, a partire dal sociale, significa gente che conosce la città e non ne ha paura, non gli è estranea la sua totalità, la sa unire, “se l’accolla”. Non colgono il punto gli annuali tributi a Corviale e altri totem urbanistici periferici, visti ancora come un turista di un centro commerciale vedrebbe all’improvviso i mezzibusti dell’isola di Pasqua. Sono esorcismi per ingraziarsi gli dèi dell’epica periferica pasoliniana, flash mob di coscienza militante contro la lontana città dei turisti. La crepa è in mezzo. La consapevolezza di ieri – una città informale, una frammentazione superata dalla voglia di unirsi – è oggi percepita come una falla, lo spazio sfilacciato di un sistema che certamente, purtroppo, latita, difetta, non si mostra con autorevolezza. Il dibattito sulle dimensioni di Roma, sorto in tempo di crisi cittadina e concluso con un orgoglioso plebiscito, ha poi invogliato o fatto desistere dal percepirla nella totalità?
L’abbandono dello spazio pubblico ha raggiunto una dimensione brutale del problema. Guardo l’ultima incursione dello youtuber Cicalone. Al netto di forzature del format, e di approssimazioni discutibili, nella sua anti-flanerie muscolare sa sempre dove andare, e soprattutto non c’è posto che non sia rivendicato come appartenente a Roma. Il punto però non è se Cicalone sia il tribuno corretto di cui la città ha bisogno, ma se le mille isole della città, da viale Palmiro Togliatti alla stazione Termini, siano ancora a bordo di quell’arca che chiamiamo Roma.
Stefano Ciavatta
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