Nominare una Capitale mondiale della Cultura contro le divisioni nazionalistiche
La nomina delle Capitali della Cultura rischia di essere correlata a motivazioni politiche ed economiche, come dimostra il caso di Şuşa, in Nagorno Karabakh. Contro la strumentalizzazione, esiste un’alternativa che soddisfa un bisogno condiviso
Pochi giorni fa, il Ministro della Cultura azero ha dichiarato che la città di Şuşa è stata nominata Capitale della Cultura del Mondo Islamico dall’ICESCO, l’Islamic Wolrd Educational, Scientific and Cultural Organisation. Negli stessi giorni, l’offensiva militare azera sortiva la resa dei rappresentanti armeni del Nagorno Karabakh, definita da Giorgio Comai (Ricercatore per l’Osservatorio Balcani e Caucaso) come “un’entità de facto indipendente emersa con il crollo dell’Unione Sovietica”, abitata principalmente da persone di origine armena.
Le tormentate vicende del Nagorno Karabakh
L’area geografica del Nagorno Karabakh è stata, negli ultimi 30 anni, territorio di conflitto, sebbene intermittente, tra l’Azerbaigian e l’Armenia. La stessa Şuşa è stata obiettivo militare azero nell’omonima battaglia avvenuta nel 2020.
Conquistata (o liberata – a seconda dei punti di vista) nel 9 novembre 2020, Şuşa è stata nominata nel 2021 “Capitale della Cultura Azera”, nel 2023 Capitale della Cultura turcica, e nel 2024 sarà dunque una delle tre capitali della cultura islamica, che l’ICESCO nomina ogni anno, rispettivamente per la regione araba, per la regione asiatica e per la regione africana.
Il conflitto del 2020, oltre ad aver affermato la conquista (o la liberazione) di Şuşa, ha anche ristretto notevolmente l’estensione territoriale del Nagorno Karabakh, completamente circondato dall’Azerbaigian a eccezione del Corridoio di Laçın, in principio sotto il controllo e la vigilanza della forza russa, che da sempre ha agito, in questa area, come mediatore, e successivamente lasciato il passo alle autorità azere. Da più di 9 mesi, tuttavia, quel corridoio era stato bloccato, interrompendo quindi i trasporti tra il territorio del Nagorno Karabakh e l’Armenia, e isolando di fatto quel territorio, precondizione essenziale per la successiva conquista (o liberazione) dello stesso, che ha generato quello che è stato definito come un grande esodo, e che vede protagonisti i circa 120mila abitanti di origine armena che intendono lasciare quel territorio per timore di ritorsioni da parte dell’esercito azero.
Emanuel Pietrobon, nel suo articolo per il Giornale, sintetizza le origini e gli interessi del conflitto: “Inizia a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Le terre aspre ma sacre del Karabakh, che secondo le leggende locali avrebbero dato rifugio ai discendenti di Noé, sono sempre state la mela dei desideri dei popoli del Caucaso. Per gli armeni è una questione di mitologia, giacché il Karabakh avrebbe dato i natali al padre della nazione, il guerriero Hayk, ma anche di storia: la loro presenza nell’area antecede la venuta di Cristo. Per gli azeri è una questione di identità, essendo il Karabakh il luogo in cui si è sviluppata parte fondamentale della loro storia sin da quando i loro antenati tataro-mongoli trasmigrarono dalle steppe di Turan. Per tutti gli altri, russi, persiani e turchi, il Karabakh è sempre stato un mezzo per un fine: il controllo del Caucaso meridionale”.
Approfondire questa vicenda, dolorosa, e oggetto anche di scontri ideologici e religiosi (l’Azerbaigian è a maggioranza musulmana, mentre l’Armenia è a maggioranza cristiana), dovrebbe farci riflettere sul reale ruolo che, in qualità di Paese occidentale ed Europeo, intendiamo dare alla cultura.
Il rischio di strumentalizzare la Capitale della Cultura
Pur suscettibili di differenti interpretazioni, anche sulla base dei propri punti di vista, gli eventi che hanno riguardato Şuşa negli ultimi anni, lasciano quantomeno spazio per supporre che la nomina a Capitale della Cultura abbia avuto un ruolo prettamente politico ed economico.
Malgrado la città presenti infatti una grande valenza storica e culturale (sia per gli armeni che per gli azeri, come spesso capita in territori così fortemente contesi), queste candidature sembrano piuttosto strumentali. Se questa percezione fosse realmente aderente alla realtà, allora la selezione di Capitali della Cultura affermerebbe un valore meramente strumentale alla cultura. Ora, tale condizione di base, ossia il valore strumentale della cultura, può anche essere accettata, ma non le sue dirette conseguenze. Perché se la Capitale della Cultura deve semplicemente affermare un “tipo di cultura” su un altro, che si tratti della cultura azera su quella armena, o la cultura turistica su quella cittadina, allora è un processo che può arrecare più danni che benefici.
Il ruolo della Capitale della Cultura
La capitale della cultura dovrebbe essere l’occasione di far conoscere agli abitanti del pianeta dei luoghi che, per la loro valenza storica, culturale e artistica, potrebbero arricchire la loro visione del mondo. Dovrebbe essere per ciascuno di noi l’opportunità di entrare in contatto con Şuşa, ad esempio, e riconoscerne il valore storico, o approfondire le opere degli esponenti culturali che durante il ‘900 hanno animato la scena culturale cittadina. Dovrebbe essere l’occasione, per coloro che in quel territorio sono attivi nel campo delle industrie culturali e creative, di promuovere, diffondere e meglio comunicare le proprie attività. Dovrebbe essere l’occasione per far convergere differenti tipi di progettualità di medio-lungo termine all’interno di un programma unitario d’azione.
Se si dismette tutto questo, in soldoni, quello che resta è un flusso finanziario che va a beneficio di territori che hanno bisogno di maggiori capitali. Che è un’azione sacrosanta, beninteso. Ma che trova nella cultura soltanto una facciata, una strumentazione che di fatto, più che esaltarla, la cultura, la declassa.
Perché abbiamo bisogno di una Capitale mondiale della cultura
Partendo da queste premesse, però, è innegabile che il fiorire, nel mondo, delle Capitali della Cultura di “qualcosa” sia indice che tale istituto risponda a un bisogno condiviso. Invocare quindi una modifica dello stesso sarebbe da un lato ingenuo, dall’altro presuntuoso.
È però lecito attendersi che, quantomeno nel nostro mondo occidentale, possa emergere una maggiore attenzione anche alle dimensioni prospettiche della cultura di un dato territorio.
Ed è altrettanto coerente con la retorica internazionale, che utilizza la cultura come un packaging buonista, immaginare che si possa affermare una capitale mondiale della cultura, perché in questa grande esplosione di capitali della cultura, l’elemento divisivo a volte appare molto evidente. Identificare una capitale mondiale della cultura, eventualmente destinataria di flussi di finanziamento fortemente ancorati al solo settore culturale e creativo territoriale, potrebbe in qualche modo restituire solidità a una narrazione che vorrebbe la cultura come elemento unificante. Quanto la cultura unifichi, poi, può essere oggetto di dibattito. Iniziamo intanto a ridare alla cultura il ruolo che merita.
Stefano Monti
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