L’arte contemporanea è sempre più lontana dal presente che viviamo

La fuga dalla realtà è il primo e unico obiettivo delle arti visive. Il rinchiudersi nella consolazione del luxury, del privilegio – come in una versione aggiornata degli Hunger Games

Sento, percepisco una frattura molto forte – non da oggi, ovviamente – tra l’arte del mio tempo e il mio tempo.
Mi spiego. L’arte mi pare viaggiare su binari propri, largamente indipendenti dal presente: certo, nominalmente la stragrande maggioranza delle opere parlano dell’epoca che viviamo, appartengono all’epoca che viviamo, si mostrano interessate ai problemi dell’epoca che viviamo. 

L’arte contemporanea post Covid

Eppure, mi sembrano vivere dentro una bolla che ha molto poco a che vedere con ciò che realmente stiamo attraversando. Questa sensazione si è fatta via via più intensa dopo la pandemia, quando tutte le aspettative (ingenue) di palingenesi e di rigenerazione sono state puntualmente disattese. Non solo ogni cosa, ogni aspetto, ogni ingranaggio del famoso “sistema” ha ripreso a ruotare esattamente come prima, in maniera ancora più vorticosa se possibile; ma quelle stesse aspettative sono state prima derise, e poi dimenticate alla velocità della luce.
Questa capacità di rimozione, di ‘fare-come-se-nulla-fosse’, è del resto una specialità dell’arte: e parlo di arte visiva, naturalmente. Non so esattamente perché (forse sì), ma gli altri territori – letteratura, cinema, musica – mi appaiono al tempo stesso più ricettivi e più reattivi. Nel senso che alcuni film recenti, per esempio, sono del tutto agganciati allo spirito del presente, in modo non didascalico né semplicemente descrittivo. Mentre li guardi, mentre sei spettatore delle vicende sullo schermo, sei cosciente del fatto che pur parlando apparentemente di un passato più o meno recente, ti stanno parlando in realtà oscuramente di oggi, di qualcosa che ti riguarda da vicino.
E così con certi grandi romanzi, persino con certi album. Con l’arte, invece, non so perché (o forse sì), questa consapevolezza non si affaccia. Forse sì, dicevo: magari, è perché una quota sempre più significativa dell’arte visiva ha da tempo rinunciato proprio a quella “oscurità”, a favore invece di una letteralità piuttosto demoralizzante. Cioè, a me sembra che molte delle opere che nascono oggi si sforzino in tutti i modi di essere esattamente quello che sono, di significare precisamente quello che la didascalia o la scheda o il comunicato hanno detto che significano. Di eliminare cioè dal proprio orizzonte ogni ambiguità, ogni mistero. Ogni oscurità.
E quindi, anche se stanno parlando del presente, lo fanno sempre e comunque ‘affrontando certi temi’: vale a dire, spiegandolo dall’esterno, come se non appartenessero realmente ad esso – o, viceversa, come se gli appartenessero troppo. Magari è solo una mia sensazione. Magari è così.
Però quella sensazione di cui parlavo prima si è acuita moltissimo con l’affacciarsi della guerra – delle guerre, ormai. In un mondo che è ormai palesemente orientato e persino votato all’autodistruzione, in un mondo follemente al contrario… l’arte contemporanea che fa?
Continua orgogliosamente a comportarsi come prima

Michelangelo Pistoletto, Orchestra di stracci – Quartetto, 1968. Photo Mart Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto – Archivio Fotografico e Mediateca
Michelangelo Pistoletto, Orchestra di stracci – Quartetto, 1968. Photo Mart Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto – Archivio Fotografico e Mediateca

L’arte contemporanea durante la guerra

Cioè si butta a capofitto nelle stesse dinamiche (economiche, politiche, sociali, culturali) che oggettivamente, comunque la si pensi e da qualunque punto di vista si guardi il contesto, hanno portato a una situazione come minimo di stallo creativo. In questo senso l’arte pare completamente distaccata, oggi ancora più di ieri, rispetto alle cose che contano in un presente mortalmente disperato e impazzito. Invece di esplodere, di cambiare registro e di impegnarsi a rimettere se possibile in carreggiata i destini collettivi, l’arte si dedica nella stragrande maggioranza dei casi a una forma particolarmente dispendiosa e insostenibile di escapismo. La fuga dalla realtà è il primo e unico obiettivo. Il rinchiudersi nella consolazione del luxury, del privilegio – come in una versione aggiornata degli Hunger Games, che assumono sempre più un aspetto di cronaca documentaristica, abbandonando quello della distopia fantascientifica. 
Ma, ripeto, magari è una sensazione che ho solo io.

Katniss Everdeen in Hunger Games
Katniss Everdeen in Hunger Games

La trilogia di Don Winslow

Se esiste una cosa che si possa definire “anti-zeitgeist”, beh, è proprio quello che percepisco nell’arte attorno a me. Cioè, se lo spirito del tempo, di questo tempo, è questa cosa qui, questo squilibrio, questo isolamento, questa paura, l’arte lo sta riflettendo in un modo molto strano – come se non volesse guardare nello specchio, guardarsi nello specchio. Come se fosse ormai troppo affezionata e legata alle proprie dipendenze, maturate nel tempo, per accorgersi che si sta facendo davvero troppo tardi (come ci avvertiva Laura Cionci poco prima di andarsene). 
Tra le grandi opere del nostro tempo, c’è la trilogia di Art Keller scritta da Don Winslow e dedicata al narcotraffico come grande metafora del mondo contemporaneo (Il potere del cane, Il cartello, Il confine), che nelle ultime pagine introduce questa riflessione nelle parole che chiudono la dichiarazione rilasciata dallo stesso protagonista alla commissione d’inchiesta: “…la corruzione non riguarda solo il denaro, va più in profondità. Dobbiamo porci una domanda: che tipo di corruzione esiste qui, nella nostra anima nazionale collettiva, che ci rende i più grandi consumatori al mondo di droghe illegali, a un tasso che eccede di cinque volte il numero totale della popolazione? Possiamo dire che le radici dell’epidemia di eroina si trovano sul suono messicano, ma gli oppiacei sono sempre una risposta al dolore. Qual è il dolore di cui soffre la società americana, che ci spinge a cercare droghe in grado di attenuarlo? È la povertà? L’ingiustizia? L’isolamento?” (Don Winslow, Il confine, Einaudi 2019, p. 896).

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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