Grasping the formless, ossia “abbracciare l’informe”, potrebbe essere in grande sintesi l’impegno prioritario delle arti contemporanee in questo momento di transizione ecologica.
Anche se da oltre mezzo secolo le arti contemporanee tendono a diventare spazio di vita e di esperienza, minando e superando ogni sapere convenzionale e “trasgressivo” insieme, sperimentando forme e processi in divenire, i momenti di rappresentatività del fare arte rimangono quasi sempre quelli legati alla mostra convenzionale.
Blockbuster, retrospettive, raccolte antologiche, fiere che fingono di essere mostre, mostre che assomigliano sempre di più a fiere, sono ancora il modo migliore per far comprendere a un pubblico composto non soltanto di collezionisti abituali cosa facciano oggi gli artisti? Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa, avrebbero detto gli artisti del Progetto Oreste di una generazione fa.
Fruizione dell’arte: cosa è cambiato e cosa no
E in questi ultimi 20-30 anni cosa è cambiato nelle politiche e nei modi di operare delle istituzioni? Le mostre-spettacolo delle grandi strutture quali il Tate Modern, o il Centre Pompidou appaiono oggi un ricordo del passato, superate in genere da esposizioni più circoscritte negli obiettivi e più attente a tematiche e ricerche contemporanee. Altre progettate come distretti culturali, quale il Museumsquartier di Vienna inaugurato nel 2001 (un agglomerato di musei con l’ambizione di essere il più grande del mondo) hanno dovuto fare i conti con il grande turismo. Il Museumsquartier si era aperto con una spettacolare performance di Vanessa Beecroft con 3000 spettatori davanti a 45 modelle nude per tre ore. In poco più di 20 anni il tema dell’“audience development” è diventato mainstream, talvolta in un difficile equilibrio con l’innovazione e il cambiamento.
Soltanto la retorica del white cube è ancora con noi. Ambienti bianchi sacrali che dissimulano il cambiamento, decostruiti dall’artista/critico Brian Doherty in una serie di articoli su Artforum nel lontano 1976, sono sempre presenti soprattutto nelle fiere. L’occhio e lo spettatore sono tutto ciò che rimane quando il personaggio è morto, scriveva Doherty, implacabile. “White cube is ersatz eternity” (“Il white cube è il surrogato dell’eternità”).
L’esempio del CERN di Ginevra
In un momento di profondi ripensamenti, anche il mondo dei musei e del mercato dell’arte dovrebbe farsi qualche domanda. La triste scienza dell’economia non ha mai saputo prevedere alcun cambiamento che lo riguardasse, ma la ricerca artistica sì.
Forse si potrebbe cercare una risposta alle esigenze del nostro tempo prendendo lezione da una scienziata. Qualche settimana fa la direttrice del CERN Fabiola Giannotti, nell’inaugurare un nuovo spazio progettato da Renzo Piano, ha precisato: “non si tratta di un museo, ma di un luogo di apprendimento”, definizione che per il mondo museale ha risuonato come una sfida.
Se il collezionismo di oggi deve formare il patrimonio di domani, dove e come cercare le opere del futuro? Nonostante il gran parlare di futuro, in realtà il futuro non esiste: va creato, e al plurale. Quale futuro, o meglio, quali futuri vogliamo dunque produrre e, nel caso dei musei, quali futuri vorranno conservare?
Abbracciare il cambiamento
Nel 2002 Documenta 11, a cura del grande quanto compianto curatore nigeriano Okwui Enwezor, ha segnato un radicale cambiamento. La sua visione non era statica, ma capace di cogliere ciò che due decenni fa stava emergendo da artisti e luoghi geograficamente e politicamente invisibili nelle periferie del mondo. Enwezor ha lavorato con un team di curatori di continenti diversi tra i quali Carlos Basualdo, Ute Meta Bauer, Suzanne Ghez, e Sarat Maharaj.
I contenuti della mostra sono stati preparati da piattaforme che mettevano a fuoco i temi delle ricerche. La realtà urbana, un punto di osservazione postcoloniale, il relativismo dei linguaggi, l’antropologia e la geopolitica sono stati alla base di questa Documenta, che ha portato in Europa modalità e ricerche fino ad allora fuori dalla limitata prospettiva delle arti visive in Occidente.
La Biennale di Venezia di Architettura 2023, con i suoi progetti basati sulle capacità di relazione al posto di quelle di costruzione, è curata da un’architetta ghano/scozzese, scrittrice di romanzi rosa. Lesley Lokko, dal suo inedito punto di vista ha presentato la produzione artistica africana quale infrastruttura fondata sulla maternità, nel senso di una cultura che abilita: abbracciamo dunque ciò che ci appare informe, sconosciuto, formless. La sopravvivenza della professione di architetto dipenderà – afferma Lesley Lokko – dalla capacità di adattarci ai cambiamenti in atto, con intelligenza, con cura, senso etico, ingegnosità e intraprendenza.
Anna Detheridge
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