Parlare di poltrone fa comodo a tutti. Fa comodo ai giornali, che producono titoli acchiappaclic; fa comodo all’opposizione, che può indignarsi per un’azione che ha sempre svolto e che in futuro svolgerà nuovamente proprio in virtù di quanto denunciato oggi; fa comodo al Governo, che si assicura così una copertura stabile con un’operazione piuttosto semplice.
Dimentichiamoci, per i circa 3 minuti di lettura di questa riflessione, di chi ha messo chi al comando di un’istituzione. Dimentichiamoci delle visioni politiche, degli schieramenti che cambiano, dimentichiamoci di Gaber e De André, dimentichiamoci anche di Bennato. Per una manciata di minuti, cerchiamo di concentrarci su quello che è importante, che non è nei nomi, nei vessilli, nelle bandiere, ma è nei libri, nelle canzoni, nelle composizioni, nelle opere.
Le prospettive di politica e cultura
L’opportunità rovente dell’intera vicenda, che ben richiama il famoso ferro su cui battere e, per assonanza, il batter della lingua sul dente che duole, sta proprio nella possibilità di comprendere quali risultati culturali emergeranno da questo nominificio in cui, non certo da oggi, si è trasformato il Ministero della Cultura. Perché il decorso di questa ipotetica grande rivoluzione sovranista all’interno della cultura italiana, può condurre a tre differenti risultati.
Il primo è che nulla cambi rispetto al passato, condizione che permetterebbe di comprendere quanto, in realtà, la maggior parte delle nomine, qualunque sia il vento che ne gonfia la bandiera, coinvolgano persone che, per incapacità o per mandato, hanno ben pochi effetti sulla struttura organizzativa e produttiva della cultura del Paese.
Il secondo esito possibile è che a fronte di tutti questi cambi di carta intestata, non emergano altrettanti talenti culturali, né ipotesi di pensiero nuove, anticonformistiche (ove per conformismo è giusto intendersi l’essere conforme al pensiero che sinora è stato dominante).
In entrambi i casi, si tratterebbe di una grande opportunità per gli schieramenti politici che oggi sono all’opposizione, che potrebbero così tornare a fregiarsi del proprio ruolo, affondando le radici di un nuovo potenziale consenso dall’altrui fallimento in carenza di meriti propri.
Sarebbe tuttavia una disfatta per il Paese: nel primo caso perché ci sarebbe la disarmante conferma di una convinzione a dire il vero piuttosto diffusa, e in alcuni casi sicuramente realistica. E sarebbe, in questo caso, una disfatta che pesa in termini di cattiva allocazione di risorse pubbliche, volte a rimborsare i poltronieri di professione, non avendo gli stessi capacità o volontà di impattare sulle organizzazioni loro affidate.
Non lontana dalla prima ipotesi, anche la seconda sarebbe una disfatta per i cittadini di questo grande talk-show che oggi chiamiamo Italia, in quanto rivelerebbe come quella penisola che da sempre si fregia di culture millenarie, in realtà abbia smesso di coltivare talenti, relegandoli a numeri nelle statistiche di brain-drain, o sconfiggendoli a suon di incarichi a contratto, per poi lavarsi la coscienza con gli espiatori social network.
L’emergere di una nuova classe culturale
Diversa dalle prime due, la terza delle ipotesi, per quanto inverosimile, è oggi indicata come la più nefasta; sarebbe invece l’unica opzione di crescita per il nostro Paese e vale a dire la possibilità che emergano, grazie al cambio di gonne e pantaloni occupanti le posizioni di prestigio, artisti sinora poco noti, visioni differenti in grado di procurare un cortocircuito al sistema ereditato di pensiero di cui oggi la politica si fa portavoce spesso inascoltata, conducendo a nuove riflessioni e narrazioni del Paese, della sua società, delle sue ambizioni, dei suoi valori.
Una tale circostanza sarebbe un dardo letale all’intimo orgoglio di una corrente politica che, erede di vite e di pensieri di grande rilevanza sociale e culturale, li ha poi condotti in modo inerte alla data di scadenza, trasformando la riflessione culturale in evento mondano, e le esposizioni d’arte in esposizioni di fruitori.
Eppure un dardo di questo tipo, per quanto letale, potrebbe scatenare una reazione tutt’altro che luttuosa, stimolando un’intera classe politica ad una riflessione che è da anni che andrebbe condotta.
La crisi della politica e la crisi della cultura
La grande crisi d’identità dei teatri cittadini, un tempo laiche cattedrali in cui, al pari di quelle religiose, persone di esperienze e di vite molto differenti si incontravano per celebrare attraverso la finzione gli elementi più autentici della condizione umana, dovrebbe essere, per una buona parte della politica del nostro Paese, un’esperienza da cui trarre insegnamento. Quei teatri, che un tempo erano gremiti di ragazzi, hanno commesso l’errore di seguire la stessa sorte dei propri fruitori: ancorati agli abbonamenti, si sono appiattiti su offerte culturali sempre più consone, sempre più simili. Così, un certo tipo di politica, che accolse la volontà di cambiamento, ha finito con l’assomigliare alla vita delle persone che la legittimarono, che crescendo hanno perso il livore, si sono affermate, evolvendosi, e qualche volta completamente trasformandosi.
Ebbene, un dardo letale ad una parte politica che non è stata in grado di rinnovarsi per tener fede alla propria identità, non sarebbe affatto una sconfitta per il Paese. Allo stesso modo, l’emersione di una nuova classe intellettuale, con idee in grado di offendere e di far riflettere, al pari di quegli intellettuali che oggi osanniamo come capisaldi della nostra cultura novecentesca e che un tempo erano tutt’altro che idolatrati, non potrebbe che creare benefici.
Ciò che tuttavia dovrebbe far riflettere, è che al momento queste ipotesi sono ancora ben lontane dall’essere visibili: concentrata sulle poltrone è l’azione di governo, concentrata sulle poltrone la contestazione dell’opposizione e concentrata sulle poltrone la riflessione della stampa, nessuna idea, dibattito o testimonianza di una rinnovata cultura sembra emergere dai contestati cambi di seduta. Ci vuole del tempo per vedere gli effetti di questa peculiare azione di governo nella cultura. Positivi o negativi che siano.
Al momento, a quanto pare, l’unico beneficio culturale di cui l’Italia può vantarsi è il beneficio del dubbio.
Stefano Monti
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