In Italia, lo stato di sviluppo legato alla cosiddetta economia delle industrie culturali e creative si presenta molto divergente sulla base dei singoli settori che compongono tale cluster. A ben vedere, infatti, molti dei settori che oggi vengono inseriti tra le Industrie Culturali e Creative presentano una demografia imprenditoriale e dimensioni di mercato che ben si allontanano dal concetto di catena di produzione del valore di tipo industriale, meglio rispondendo alla considerevolmente più ridotta fenomenologia dell’autoimprenditorialità.
Per moltissime categorie di prodotto o servizio culturale, infatti, il mercato è da un lato caratterizzato da una domanda piuttosto esigua, con conseguenti esigui volumi di fatturato, e dall’altro da un eccesso d’offerta, spesso dominato a livello nazionale da pochi grandi player e che a livello territoriale si traduce nella presenza di micro-organizzazioni, che competono tra loro, e che difficilmente trovano condizioni tali da potersi espandere, per fatturato e per dimensioni occupazionali.
Industria culturale e strategie di acquisizione
Accanto a tali prodotti (si pensi ad esempio agli sviluppatori di videogiochi indipendenti, o alle piccole società e cooperative che erogano servizi di accoglienza nei musei o ancora alle piccole agenzie di comunicazione e social media marketing), esistono poi veri e propri settori industriali.
Settori come l’audiovisivo o l’editoria, ad esempio, che vantano una grande storia imprenditoriale nel nostro Paese, considerevoli volumi di fatturato, e dimensioni economiche e finanziarie tali da consentire l’applicazione di strategie che sono tipiche del mondo dell’industria “non culturale”.
Nell’industria non culturale, ad esempio, è frequente assistere ad operazioni di acquisizione di quote societarie da parte di altre società, al fine di costituire dei gruppi (o holding) che permettano alla capogruppo di perseguire azioni di incremento dei ricavi o riduzione dei costi di produzione.
Volendo semplificare, si può immaginare come una strategia di integrazione verticale quella dell’impresa di dolciumi che, dopo essere cresciuta con le vendite, decide di ampliare il proprio mercato non solo alla produzione di merendine, ma di estendersi lungo la catena di creazione del valore, avviando attività di produzione diretta delle materie prime, o inserendosi nel mercato della distribuzione, fino ad arrivare agli “store monomarca” che ad oggi costellano tantissime città.
Si tratta chiaramente di una schematizzazione, che tuttavia risulta piuttosto familiare (quantomeno nella dimensione degli store monomarca) chiunque sia solito passeggiare per le vie dei centri cittadini, o chiunque abbia recentemente viaggiato in treno o in aereo tra le più grandi stazioni o aeroporti d’Italia.
L’esempio del mercato editoriale
Nel settore culturale questa strategia è di più difficile applicazione, e per tantissimi motivi. Eppure, nella storia recente dei settori culturali industrialmente più sviluppati, è stato possibile apprezzare iniziative affini. È il caso, ad esempio, di Feltrinelli, che per prima ha implementato nel settore dell’editoria il concetto di “monomarca”, con risultati estremamente interessanti, sia sotto il profilo imprenditoriale, sia sotto il profilo culturale. Oggi, le librerie Feltrinelli, Mondadori, Giunti e affini sembrano essere la normalità. Soltanto 20 anni fa erano tutt’altro. Ad essere padrone dell’editoria al dettaglio erano infatti quelle che un tempo si chiamavano librerie, e oggi si chiamano librerie indipendenti. Con scaffali e scaffali di libri. A volte poetiche a volte al sapor neon di magazzino.
In questo senso è interessante commentare anche la recente operazione di finanza straordinaria attraverso la quale Feltrinelli ha acquisito la Scuola Holden fondata da Alessandro Baricco.
Un intervento che estende ulteriormente le aree di mercato diretto della Feltrinelli, che si estendono così dalla formazione di autori (scuola), alla loro selezione e pubblicazione (casa editrice) alla distribuzione dei propri volumi (Emme Effe libri) fino alla vendita al dettaglio. Sia chiaro, sicuramente queste società non esauriscono le totalità di partecipazioni del Gruppo, ma questa riflessione non è un approfondimento sul Gruppo Feltrinelli. Usa piuttosto le scelte strategiche adottate in campo editoriale e audiovisivo (non solo Feltrinelli si è spinta in questa direzione, e nella produzione audiovisiva sono piuttosto frequenti operazioni di finanza straordinaria), per interrogarsi sulle ragioni per cui tali strategie difficilmente vengano applicate anche ad altri settori.
Una di queste è sicuramente la dimensione dei soggetti economici e la loro “unicità”. Una società di medio-grandi dimensioni, infatti, può ritenere conveniente investire in quote di società più piccole nel caso in cui tali società siano in grado di generare dei margini, e nel caso in cui tali società possano essere utili a raggiungere specifici risultati in modo più efficace rispetto alla capogruppo.
Chiari esempi di questa logica sono evidenti nel mondo tecnologico e delle start-up, nelle quali i grandi investono perché ritengono che i team che hanno sviluppato un’idea progettuale possano generare un prodotto interessante per lo sviluppo. Un prodotto che si traduce quindi in brevetti e licenze che i big-player cercano di togliere dal mercato per poter evitare possano essere inglobati da un loro diretto competitor, o anche perché, l’investimento richiesto per l’acquisizione delle quote in fase di start-up, viene reputato estremamente più conveniente rispetto al prezzo che bisognerebbe sostenere per acquistare il prodotto o il servizio una volta ultimato.
L’importanza di fare rete nell’industria culturale
È raro, tuttavia, che la competenza distintiva di una piccola impresa che opera all’interno del mercato delle industrie culturali e creative sia completamente riconfigurabile ad un brevetto o ad una licenza. Così come è raro (non impossibile, ma raro), che le piccole società attive nel mercato delle industrie culturali e creative creino dei prodotti o dei servizi talmente distintivi che un’impresa di grandi dimensioni non possa replicare e surclassare anche in una logica di fatturato.
Nella pratica, quindi, ciò che accade con maggiore frequenza è la creazione di un network di fornitori specifici, e vale a dire la chiusura di contratti che la grande e media impresa può siglare, in una condizione di vantaggio competitivo, rispetto alle piccole imprese. Vantaggio che si può esprimere, ad esempio, nel riuscire ad ottenere prodotti e servizi a prezzi più economici rispetto ad altre soluzioni presenti sul mercato, a fronte di una quantità di lavoro volta sempre più a raggiungere la massima produttività della piccola impresa che, di fatto, si troverà ad avere nella grande impresa il proprio unico cliente, senza tuttavia beneficiare delle condizioni che potrebbe ottenere con l’acquisizione.
In altri mercati, invece, tale dinamica è sostituita dalla creazione di Associazioni Temporanee di Imprese o Reti Temporanee di Imprese mediante le quali il grande player si affianca al piccolo operatore economico per l’erogazione dei servizi territorialmente circoscritti, ad esempio l’erogazione di servizi di assistenza alla visita nei musei. Si tratta di un tema che raramente viene discusso in modo serio all’interno degli altri settori, ma che potrebbe portare alla creazione di prospettive estremamente interessanti sotto il profilo dello sviluppo dei mercati ad oggi meno industrializzati rispetto a quelli già citati dell’audiovisivo e dell’editoria.
Si pensi ad esempio al caso di acquisizione di piccole quote di società di gestione dei servizi aggiuntivi da parte di grandi player del settore: una piena integrazione consentirebbe, ad esempio di introdurre anche nei circuiti museali con minore affluenza capacità di comunicazione, di know-how, di engagement della cittadinanza tale da poter incrementare il numero delle visite anche in luoghi della cultura meno visitati, e forse anche in giorni diversi da quelli gratuiti.
Conclusioni e prospettive
Si tratta chiaramente, soltanto di un esempio, che tuttavia lascia emergere un elemento che, sinora ignorato, andrebbe in ogni caso inquadrato con attenzione: il ruolo del settore pubblico, inteso nella sua duplice veste di soggetto deputato alla definizione delle regole di mercato, e di soggetto acquirente di servizi.
Come visto, infatti, allo stato di fatto ci sono delle condizioni che rendono poco appetibile la possibilità di avviare, in certi settori, strategie di integrazione verticale. Per un’impresa è oggi più conveniente ricorrere ad una delle varie forme di partnership non vincolanti già descritte, ed essendo coerenti con le regole di mercato (anzi, incentivate nel tempo dai vari codici dei contratti), saranno poche le imprese di grandi dimensioni che decideranno di avviare acquisizioni in assenza di convenienze dirette.
Malgrado ciò, nel caso in cui si dovessero valutare in modo favorevole gli impatti che potrebbe avere una maggiore diffusione delle operazioni di finanza straordinaria, tanto per il settore produttivo, tanto per la cittadinanza, allora si potrebbero immaginare politiche volte a favorire questo fenomeno.
Stefano Monti
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