Dio (non) ha salvato la Regina, e a quanto pare non sta facendo molto nemmeno per il Re e la bella Principessa Kate. Del resto bisogna anche capirlo: chi si prenderebbe a cuore le sorti di una famiglia disfunzionale come questa, dove la defunta madre odiava la nuora al punto da ignorarne la morte (se non fosse stato per il popolo non avrebbe neanche messo la bandiera a mezz’asta al funerale), l’attuale re fa “simpatiche” battute razziste sul nipote Archie (“quanto sarà nero?”), mentre sul fratello Andrea pende un’accusa di pedofilia.
La decadenza del sogno britannico
Insomma, sono lontani i tempi in cui il nostro inossidabile Claudio Baglioni cantava Viva viva l’Inghilterra, e noi tutti ragazzi italiani sognavamo un giorno di andare a vivere a Soho. All’inizio piano piano, poi tutto d’un colpo, il mito della Gran Bretagna, fatto di cabine telefoniche rosse, copricapo della Guardia Reale di pelliccia di orso, taxi neri e club punk si è sbriciolato come cartongesso sotto un acquazzone. Prima c’è stato il boomerang della Brexit, poi l’avvento politico di gente come Liz Truss (la ricordate? Quella che il Nord Stream l’avevano fatto saltare i russi…), che, con i suoi neanche due mesi di governo, ha fatto impallidire i “governicchi” nostrani, e infine il trionfo di Rishi Sunak, miliardario multiculturale ma allergico agli immigrati al punto da proporne addirittura la deportazione in Ruanda! Diciamo che ce n’è abbastanza da vergognarsi?
L’Italia è ancora periferia dell’Impero Britannico?
Una volta, gli italiani, per consolarsi dello svantaggio economico, rinfacciavano agli inglesi che un tempo, quando noi avevamo Lucrezio e Ovidio, loro giravano con l’anello al naso. Oggi, forse, ripensando a tempi assai più prossimi, come al fatto che, quando noi avevamo Beccaria e Leopardi, loro si davano al commercio di schiavi – alcune valutazioni storiche magari andrebbero riviste. Oltre che sul piano politico e civico, poi, noi siamo specialisti nell’autoflagellazione soprattutto in campo culturale e artistico, ritenendoci una periferia dell’Impero senza una vera originalità. Ma qui, davvero, l’errore di valutazione diventa palese e, per fortuna, per capirlo basta osservare meglio i nostri miti di sempre. Chi, frequentatore assiduo o sporadico bazzicante del mondo dell’arte, non si è mai genuflesso di fronte a uno scaffale colmo delle superbe monografie di Thames&Hudson?
Il caso del libro di David Curtis e Steve McQueen
Ecco, a proposito, un amico ha fatto notare che una delle ultime – Artist’s Film, scritta da David Curtis e con una prefazione nientemeno che di Steve McQueen – ignora completamente tutta la produzione di cinema d’artista italiano. La cosa di per sé sarebbe già piuttosto imbarazzante, se teniamo conto anche solo di figure di primo piano, da Bruno Munari a Mario Schifano, da Fabio Mauri a Paolo Gioli e Francesco Vezzoli, tanto per citare nomi che in questo particolare campo espressivo hanno dato contributi fondamentali.
Ma Curtis fa di più: cita, sì, Verifica incerta (1964), il capolavoro di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi – solo che la grafia di entrambi i nomi (Barucello e Griffi) risulta errata! Ora, se pensiamo allo scrupolo che noi tutti in Italia mettiamo nel citare correttamente i nomi stranieri, per evitare di apparire “provinciali”, che cosa dobbiamo dire di fronte a questa sfrontata e supponente mancanza di rispetto culturale, proveniente da un popolo che fa dell’integrazione, del postcolonialismo e dell’inclusione la propria (ipocrita) bandiera?
Che forse anche Dio comincia ad averne piene le tasche.
Marco Senaldi
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