La premessa è sempre quella: arte e società sono legate a doppio filo, in maniera biunivoca, e si influenzano a vicenda. Dunque, l’avanguardia storica (e in parte, in versione diciamo parodica o ‘smorzata’, depotenziata e semisterilizzata, la neoavanguardia degli Anni Cinquanta e Sessanta) traeva parte della sua energia dalla spinta utopica, a sua volta connessa alla dimensione dell’ideologia politica. Detto in altri termini: l’avanguardia, per nascere esistere e prosperare, ha avuto e ha bisogno di sognare un mondo diverso (migliore?), un’altra realtà sociale e esistenziale, e di cominciare a sperimentarli entro il perimetro dell’opera d’arte. Ciò presuppone anche un orientamento deciso verso il futuro – cioè a costruire il futuro nel presente, fondendo le due dimensioni temporali.
Arte e politica oggi
Oggi, possiamo dire (e da parecchio) queste condizioni non sussistono più. Non esiste alcun sogno condiviso, e la politica si muove – goffamente – sul terreno del contingente: è, dunque, una questione di sopravvivenza, di mantenimento (di privilegi, status quo, standard, ecc. ecc.). E con politica intendiamo non solo e non semplicemente il livello istituzionale, ma proprio la gestione quotidiana dell’esistente e la manutenzione costante del contesto generale.
Se la “spinta utopica” era anche la forza, l’impulso che alimentava lo spirito di ribellione, allora l’esaurimento di quell’impulso spiega in buona parte l’essicazione della ribellione in campo artistico e culturale. Possiamo verificare questo fenomeno in quasi tutti i territori: cinema, musica, letteratura, arti visive, imprenditoria creativa, innovazione tecnologica. Si tratta, come sempre, di una “disposizione d’animo” che è mutata in profondità, e che presiede alle scelte e ai comportamenti, oltre che alle opere. Il ribelle (il fuorilegge, il fuoriposto…), una volta – fino a, diciamo, una trentina di anni fa? – di moda e influente, ammirato e corteggiato, imitato, vezzeggiato, perdonato, è ridotto oggi a una figura miserabile, un poveretto, un mentecatto, che ispira al massimo commiserazione, ma che non viene considerata con molta simpatia. Di fatto, una specie di cretino.
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I modelli del presente: imprenditori e influencer
Il modello attuale essendo infatti un artista/scrittore/musicista/regista/designer/imprenditore/influencerorientato e interessato all’hic et nunc, a massimizzare gratificazione e consenso. A catturare il momento, qualunque cosa voglia dire.
Qui le persone sono più cordiali, più gentili, più ospitali – non come lì.
Per il momento, dal punto di vista dell’opera, possiamo dire: non esiste immaginario senza stile. Senza forma. (E quindi, ça va sans dire, senza ricerca, sperimentazione, innovazione: in una parola, senza avanguardia.) Questo è vero adesso come era vero negli Anni Venti, Trenta, Quaranta, Cinquanta, Sessanta del Novecento, oppure nel Quattrocento, nel Cinquecento e nel Seicento… O anche nel Quattrocento a.C., se è per questo (e presumo che fosse così anche 64.000 anni fa, al tempo delle prime pitture rupestri dei Neanderthal).
Opere, contenuti e didascalie: guerre e traumi collettivi
Sembra piuttosto ovvio, e invece a quanto pare non lo è affatto, o non lo è più: l’opera non deve parlare della guerra, o dei traumi collettivi che stiamo vivendo e attraversando (o meglio, che ci stanno attraversando) in questi anni: così si ricade inevitabilmente nel territorio della retorica, della didascalia, e della noia. Al tempo stesso, l’opera d’arte non deve per forza appartenere al terreno della cronaca, oppure ricadere ancora e ancora nel recinto in cui si è confinata. Non deve cioè essere prigioniera dell’o-o, dell’aut aut, come in effetti accade oggi: l’opera può, e deve, appartenere all’e-e, può e deve essere sia una cosa che l’altra. Non deve quindi rispondere a delle domande, ma continuare a domandare.
Opere e temi: attraversando l’esperienza
Quindi non parla di un ‘tema’, ma lo vive, lo attraversa, ne fa esperienza: diventa cioè il suo tempo, e costruisce quello prossimo. “The only way out is through” (Robert Frost). Quanto di più lontano ci possa essere rispetto alla “descrizione”. Il compito più importante che può svolgere qualcosa come l’opera, che per definizione non ammette compiti, è di eliminare filtro dopo filtro, finzione dopo finzione, strato dopo strato di propaganda, e farci accedere a quel nucleo di verità che è sempre ambiguo e ambivalente.
E che contraddice questa voglia matta di unilateralità, di “fatti” (o-o) che il nostro presente pare alimentare costantemente, e disperatamente.
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…