Nostalgia del futuro e presente continuo nella dimensione politica e culturale
Rivelatorio è l’immaginario evocato da Trump e Musk, ma il tempo ha smesso di ticchettare due decenni fa. Fino alla produzione di una nostalgia che difende lo status quo, di artisti fantasma e di un tempo indefinito che è un impasto di epoche…
L’immaginario elaborato e messo in campo da Donald Trump e dal suo team di miliardari e spin-doctor si appoggia, come abbiamo visto, in larghissima parte sulla nostalgia: nostalgia degli anni Ottanta, nostalgia del West e dell’epoca dei pionieri, nostalgia della prosperità, nostalgia dell’Impero… e nostalgia del futuro, un buon-vecchio-futuro, un futuro old-fashioned, affidabile e collaudato, dunque liberato di tutte le incertezze e le indefinitezze e le ambiguità che associamo normalmente al futuro.
La nostalgia del futuro secondo Elon Musk
Un futuro modellato da Elon Musk significa non un tempo nuovo e inedito che inizia e che viene costruito passo passo a partire dagli elementi più sfuggenti del presente, ma un tempo già pronto, strutturato e definito, che semplicemente cade verso di noi, si presentifica, per così dire, si concretizza a partire da una progettazione rigorosa (come, appunto, un razzo, un’astronave, o un’automobile senza guidatore…).
È chiaro che, al centro esatto di questa tempesta che è il potere contemporaneo, al centro di questo tempo così strano c’è il nostro rapporto collettivo con il tempo – che è, se possibile, ancora più strano. Ma quando, esattamente, è iniziato questo rapporto speciale? Quand’è che la nostalgia, da architrave della cultura postmoderna, ha cominciato a trasformarsi in nostalgia di nostalgia di nostalgia, eco di un’eco di un’eco, riflesso di riflessi di riflessi? Quand’è che è scattata questa vertigine?
È chiaro che la storia può essere fatta tranquillamente risalire di trenta, quaranta, volendo anche di cinquant’anni. Ma, se dovessimo stabilire un momento-chiave in cui il tempo (o meglio: la nostra percezione del tempo) si è avvitato su se stesso, probabilmente ci concentreremmo su qualche punto tra gli anni Zero e gli anni Dieci di questo secolo.
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L’immagine del tempo nel presente contemporaneo
Mentre Britney Spears si rasava a zero – come giustamente mi ha ricordato l’altro giorno uno studente – qualcosa è capitato al modo in cui ci relazioniamo con il tempo; e al modo in cui gli oggetti culturali che produciamo e guardiamo, ascoltiamo, leggiamo si relazionano con esso. Il tempo, per così dire, ha smesso in quel periodo di andare avanti come al solito, si è fermato, e ha cominciato ad andare in tondo, qui e là – di sicuro, non più in un’unica direzione.
Questo fenomeno, che ancora oggi facciamo in effetti un po’ fatica a riconoscere (dite la verità, se pensate che il tempo a un certo punto si sia fermato vi viene subito da ridere; se ci ripensate, vi viene da ridere un po’ meno), ha avuto un impatto difficilmente valutabile sui modi in cui interpretiamo la realtà, e in cui restituiamo questa interpretazione attraverso l’arte. Ciò che abbiamo alle spalle è un ventennio abbondante, infatti, di presentecontinuo: di un tempo cioè talmente impastato di epoche (che vuol dire riferimenti, stili, tic, immaginari, ecc.) da non essere, di fatto, più riconoscibile per se stesso, in quanto tale. Un tempo amniotico, vischioso. Un tempo che, costantemente in cerca di rassicurazione e gratificazione, azzera ogni progressione.
Il tempo presentecontinuo e gli artisti fantasma
Un tempo in cui, non a caso, le dimensioni della politica e della cultura tendono a presentarsi come a-storiche, qualcosa che è sempre stato così e che prescinde da condizioni date (che quindi sono o sarebbero mutevoli per definizione). Così, diventa per esempio perfettamente plausibile l’oggetto dell’indagine di Liz Pelly per “Harper’s Magazine”, The Ghost in the Machine: il fatto cioè che Spotify abbia per anni tranquillamente inzeppato le sue playlist (in particolare di jazz, classica, ambient e lo-fi hip-hop) di ghost artists, cioè musicisti inesistenti, immaginari, per pagare molte meno royalties agli artisti veri, reali, viventi ( The Ghosts in the Machine, by Liz Pelly). Uno pensa che sia inimmaginabile, eppure sta accadendo: brani fantasma prodotti da artisti fantasma per fantasmi di ascoltatori, vale a dire ascoltatori i quali (anche se esistono sul serio) non si accorgono neanche della sostituzione.
A questo punto, gli artisti fantasma possono essere benissimo non solo musicisti, ma anche scrittori, registi, artisti visivi. Chi si accorge, a questo punto, della differenza tra opera vera e opera finta? L’ascolto della musica, come ogni altra attività, presuppone una sorta di scavo, di indagine, di ricerca che è parte integrante della fruizione (non del consumo): attraverso i generi, le epoche, gli autori la conoscenza che si compone è inscindibile dal piacere: se tutto è compresente, se tutto è identico a tutto il resto, se tutto vale e si equivale, allora è chiaro che non c’è più alcun bisogno di artisti veri a cui pagare i diritti.
La nostalgia cavallo di Troia del presente
La nostalgia allora si presenta per ciò che realmente è, e che è sempre stata: un surrogato, un cavallo di Troia. La nostalgia brucia i ponti e allaga i pozzi; per ovvie ragioni, essa è votata alla difesa dello status quo, e annulla la nozione stessa del ‘nuovo’ (per non parlare di quella di ‘avanguardia’). Il presentecontinuo degli ultimi anni è un mondo in cui abbiamo virtualmente a disposizione qualunque scena, qualunque idea, qualunque opera – salvo poi scoprire, una volta raggiunta, che dietro, e dentro, non c’è niente. (E nel frattempo, abbiamo perso un sacco di tempo, che per quanto giri e rigiri indietro non torna.)
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…