Il soft power italiano in Siria passa attraverso l’archeologia

Negli anni, l’Italia ha saputo formare decine di archeologi e intellettuali siriani, una risorsa preziosissima per la diplomazia culturale fra i due Paesi. Ma si può fare di più, guardando a chi lo fa meglio di noi

I legami tra Siria e Italia affondano le loro radici in epoche remote, intrecciandosi profondamente con la millenaria storia del Mediterraneo, crocevia di civiltà, scambi culturali e relazioni diplomatiche che hanno plasmato l’identità di entrambe le sponde. Un esempio emblematico di questo intreccio è rappresentato dalla Repubblica di Venezia, che inaugurò nel 1548 ad Aleppo una rete consolare strettamente legata agli scambi commerciali, aprendo il proprio Consolato all’interno di un khan, una locanda commerciale situata nel cuore vibrante della città vecchia. Questo edificio, noto come Khan al Banadiqa, “il khan dei Veneziani”, conserva ancora oggi nella sua denominazione l’eco di quel prestigioso passato di relazioni e influenze reciproche.  Questi profondi legami storici, tuttavia, non si sono esauriti nel tempo: anche nella storia più recente, le dinamiche politiche hanno frequentemente influenzato e talvolta condizionato i rapporti culturali tra il Vicino Oriente e l’Europa, modellando percezioni e collaborazioni reciproche. In questo contesto, l’archeologia, intesa non solo come disciplina scientifica ma anche come strumento di dialogo e conoscenza, ha svolto un ruolo fondamentale, contribuendo a rivelare e reinterpretare le radici comuni delle due civiltà.

L’archeologia del Vicino Oriente

Se l’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone nel 1798 accese in Europa un fervido interesse per le antichità faraoniche, le terre misteriose del Vicino Oriente, con le loro colline silenziose e le rovine celate dal tempo, rimasero a lungo avvolte in un’aura di enigmatico oblio, attirando solo pochi viaggiatori eruditi e missionari occidentali mossi da curiosità intellettuale e spirito di scoperta. Fu nel 1842 che rappresentanti britannici e francesi percorsero i solenni corridoi della Sublime Porta di Istanbul, intenti a negoziare con le autorità ottomane i permessi necessari per intraprendere scavi presso i leggendari siti di Mosul. Quelle campagne, pionieristiche e ardite, riportarono alla luce le vestigia di antiche civiltà, disvelando la grandezza di Ninive, l’imponenza dell’Assiria e il fascino immortale di Babilonia. Tali imprese non solo svelarono le fondamenta di culture millenarie, ma segnarono anche l’alba dell’archeologia moderna nel Vicino Oriente. 
Durante la prima metà del Novecento, le missioni archeologiche attive in Siria furono prevalentemente tedesche, britanniche e francesi, testimoniando l’interesse delle potenze europee per il passato della regione. Tuttavia, con la conclusione del secondo conflitto mondiale e l’indipendenza della Siria, si aprì una nuova stagione di esplorazione scientifica, consentendo la partecipazione di missioni provenienti da una pluralità di nazioni, tra cui l’Italia, il cui contributo arricchì ulteriormente la riscoperta di questo crocevia di civiltà.
Queste missioni hanno ricoperto un ruolo di primaria importanza nel tessere e consolidare i legami tra Italia e Siria, divenendo, in alcuni momenti, strumenti eloquenti di un dialogo che ha saputo intrecciare scienza, memoria e diplomazia. Con l’avvento di quella stagione di rinascita culturale, si inaugurò una nuova fase di cooperazione, in cui l’archeologia e le arti si fecero veicolo di un’intesa profonda, capace di trascendere le contingenze politiche. La diplomazia culturale emerse come un ponte ideale, non solo nel nobilitare l’immagine della Siria agli occhi della comunità internazionale ma anche nel rinsaldare la presenza italiana sul suolo siriano, testimoniando l’impegno condiviso nella valorizzazione e nella tutela del patrimonio storico comune.

Aleppo, città vecchia, 2011. Photo Ghiath Rammo
Aleppo, città vecchia, 2011. Photo Ghiath Rammo

La cultura come strumento di soft power

I legami fecondi tra Siria e Italia hanno spalancato le porte del sapere a numerosi studenti e ricercatori siriani, offrendo loro l’opportunità di proseguire il proprio percorso di crescita accademica e scientifica, in particolare nei campi della medicina e dell’archeologia, all’interno degli atenei italiani, culle di antica tradizione umanistica e scientifica. Alcuni di essi hanno intrapreso carriere brillanti, distinguendosi per meriti e contributi significativi, mentre altri hanno incontrato percorsi più incerti e meno incisivi. Ciò che risulta innegabile, tuttavia, è che l’Italia abbia formato, nel tempo, una classe dirigente siriana dotata di un solido bagaglio culturale e di legami profondi con il Paese, un capitale umano potenzialmente strategico nei rapporti bilaterali. Resta tuttavia aperto l’interrogativo se questa forma di “soft power” sia stata realmente valorizzata con la lungimiranza necessaria, o se, al contrario, le potenzialità di tale scambio siano rimaste in parte inespresse.

L’esempio degli Stati Uniti

La capacità di formare leader attraverso il sapere rappresenta uno degli strumenti più potenti di diplomazia culturale, come dimostrano non solo i legami tra Siria e Italia, ma anche l’esempio degli Stati Uniti. Questi ultimi, infatti, hanno affinato nel tempo un modello efficace di soft power, fondato sull’attrazione di studenti internazionali nelle loro istituzioni accademiche, trasformando il sistema educativo in una leva strategica per influenzare il panorama politico globale. Non esiste risorsa più preziosa per una nazione che il legame instaurato con i futuri leader mondiali, soprattutto quando questi hanno avuto l’opportunità di formarsi presso le sue istituzioni. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno a lungo compreso il valore strategico di attrarre studenti internazionali nelle proprie università, non solo per il prestigio accademico, ma anche per il potenziale diplomatico insito in tale scambio culturale. Spesso, questi studenti tornano nei loro Paesi d’origine arricchiti da un profondo apprezzamento per i valori democratici, le istituzioni e la cultura americana. Con il tempo, molti di questi ex studenti, depositari di un capitale di buona volontà, si trovano a occupare posizioni di rilievo nelle loro società, dalle stanze del potere politico ai vertici dell’economia, fino ai luoghi di influenza culturale e accademica. Da queste posizioni, essi diventano attori in grado di plasmare decisioni e politicheche possono incidere sugli interessi strategici americani. È in questo contesto che la cultura e l’istruzione si rivelano strumenti di soft power di straordinaria efficacia, capaci di creare legami profondi e duraturi che trascendono le frontiere geopolitiche e alimentano relazioni basate sulla comprensione e sulla cooperazione reciproca (Joseph Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics, 2004).

Urkesh:Tell Mozan, città fondata dagli Hurriti, Qamişlo 2004. Photo Ghiath Rammo
Urkesh:Tell Mozan, città fondata dagli Hurriti, Qamişlo 2004. Photo Ghiath Rammo

La “guerra” tra gli archeologi

Nel corso della guerra siriana, mentre le città si sgretolavano sotto il peso delle macerie e il fragore del conflitto risuonava implacabile, un’altra battaglia, più silenziosa ma non meno lacerante, si consumava all’interno della comunità archeologica internazionale. Si trattava di una frattura etica e intellettuale che divise profondamente gli studiosi: da un lato, coloro che ritenevano imprescindibile proseguire le attività di ricerca sul campo, convinti che lo studio e la tutela del patrimonio culturale fossero un dovere morale anche, e forse soprattutto, nei momenti più bui della storia; dall’altro, chi sosteneva che scavare e condurre indagini accademiche in un Paese ferito e devastato dal conflitto, con la popolazione dilaniata dalla sofferenza, fosse non solo inappropriato, ma moralmente insostenibile. Un conflitto di coscienza che rifletteva interrogativi più ampi sul senso stesso della cultura di fronte alla tragedia umana.

La guerra in Siria e il ruolo del patrimonio culturale

La devastazione del patrimonio archeologico e culturale in Siria è stata il risultato di una combinazione tragica di fattori: i raid aerei e i bombardamenti che hanno ridotto in polvere secoli di storia, i saccheggi mirati che hanno privato il mondo di inestimabili frammenti del passato, la distruzione sistematica come strumento di annientamento identitario e, infine, lo sfruttamento di siti millenari per scopi militari. In alcuni casi, questi luoghi sacri alla memoria collettiva si sono trasformati in rifugi di fortuna per gli sfollati, testimoni silenziosi di una duplice ferita: la rovina del passato e il dolore del presente. Da un lato, vi è la storia dell’umanità stessa, l’eredità di civiltà scomparse che ci ricorda chi siamo stati e ci guida nel comprendere chi potremmo diventare. Perché cosa resta di un popolo privato del proprio passato, delle sue radici e della propria memoria? Dall’altro lato, però, vi sono le vite umane: donne, uomini e bambini che hanno lottato per la sopravvivenza. E allora ci si chiede: quale valore può avere un patrimonio, per quanto antico e prezioso, se non vi sono più persone capaci di custodirlo, tramandarlo e dargli voce nel futuro?

L’importanza della ricerca e della collaborazione accademica

Ritengo che i boicottaggi scientifici rappresentino una rinuncia a uno degli strumenti più potenti e raffinati della diplomazia culturale. La collaborazione accademica e la ricerca congiunta non solo alimentano il progresso del sapere, ma intrecciano anche legami profondi, non tanto con le istituzioni o i poteri politici di turno, quanto con il cuore pulsante di un Paese: la società civile. È in quella comunità spesso silenziosa, lontana dai riflettori e dalle narrazioni ufficiali, che risiede il vero potenziale di un dialogo autentico e costruttivo. Tuttavia, perché tale scambio mantenga la propria purezza e integrità, esso non deve scivolare nella strumentalizzazione, divenendo un mero ornamento propagandistico o un mezzo per legittimare regimi e agende politiche. La scienza e la cultura, per restare strumenti di connessione universale, devono preservare la loro libertà da ogni forma di manipolazione ideologica.

Il ruolo dell’Italia nella formazione siriana

Vorrei portare all’attenzione due esempi che, purtroppo, sono passati inosservati o, comunque, non hanno ricevuto la visibilità che meritavano. Nell’ultimo governo sotto il regime di Bashar al Assad, fu nominata ministra della Cultura la dott.ssa Diala Barakat. All’inizio del nuovo millennio, Diala Barakat partecipò al “Progetto Apollodoro”, un’iniziativa di grande partecipazione finanziata dal Ministero degli Affari Esteri Italiano, in stretta collaborazione con la DGAM, la Direzione Generale dell’Antichità e dei Musei della Siria. Come studentessa siriana, Barakat ha avuto l’opportunità di approfondire le sue conoscenze accademiche, frequentando corsi post-lauream presso l’Università Roma Tre. 
Un altro esempio è il dott. Anas Haj Zidan, recentemente nominato Direttore DGAM nella nuova Siria. Haj Zidan ha intrapreso  un percorso accademico in Italia, conseguendo la magistrale a Firenze e poi il dottorato presso Sapienza Università di Roma. Nel corso della sua formazione, ha avuto modo di lavorare nelle missioni archeologiche italiane in Siria.

Politica e soft power tra Siria e Italia

Purtroppo, la questione soft power affonda le radici principalmente in una problematica di natura politica, poiché molti leader, come alcuni accademici, faticano a cogliere appieno la sottile complessità e l’immenso potenziale del soft power in un mondo sempre più interconnesso e intrinsecamente variegato. Incapaci di comprendere che l’influenza culturale e la diplomazia del sapere possono spesso rivelarsi strumenti più incisivi e duraturi rispetto alla forza coercitiva, essi trascurano il valore del dialogo, della condivisione intellettuale e dello scambio culturale come chiavi per costruire ponti di comprensione e stabilità. In un’epoca in cui le identità si intrecciano e i destini si sovrappongono, ignorare questa forza gentile equivale a privarsi di uno degli strumenti più eleganti e potenti per forgiare relazioni armoniose e influenzare il corso della storia con saggezza e lungimiranza. L’Italia, forte di una rete culturale e diplomatica di ampio respiro, potrebbe valorizzare appieno questo potenziale, riaffermando il proprio ruolo di protagonista nel dialogo tra le civiltà.

Ghiath Rammo

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Ghiath Rammo

Ghiath Rammo

Archeologo orientalista, laureato in Archeologia presso l’Università di Aleppo (Siria). Tra il 2004 e il 2010 ha partecipato agli scavi dell’antica città di Ebla (Siria) come membro della Missione Archeologica Italiana in Siria. Ha maturato esperienza in campo turistico ad…

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