Per una funzione dell’arte nel secolo di Musk
In un momento storico in cui l’arte perde forza davanti all’avanzare di una tecnologia sterile e fredda, l’unica risposta sta nel trasformarla in un silenzioso strumento di resistenza, restituendole senso nonostante un sistema che ambisce a conferirle un ruolo marginale

Erano i primi Anni ’60 quando Marcuse scriveva che il processo di omologazione e riduzione ad “una dimensione” che caratterizzava la società neocapitalistica – e che lui, profugo ebreo tedesco, vedeva plasticamente nell’uniformità delle villette americane – avrebbe coinvolto anche l’arte, facendole perdere quella funzione eversiva e anticipatrice del nuovo mondo. “Bach come musica di fondo in cucina” non è più immagine “di un altro modo di vita“, non è più prefigurazione di spazi possibili.
In un futuro appaltato dalla tecnologia l’arte rischia di guardare indietro
Oggi il futuro è stato appaltato alla tecnologia e l’arte non cammina più negli spazi dei mondi possibili, ma guarda indietro: ritorno al romance medievale, postmodernismo trasformato in componente d’arredo; immagine per abbellire l’ambiente, attrattore turistico, illustrazione, storytelling, advertising. In questo processo, l’arte ha perso quella dimensione di disturbo, disorientamento e fastidio che l’aveva caratterizzata dalla rivoluzione manieristica in poi.
Per secoli profeti, scribi, sacerdoti, visionari, filosofi, poeti, artisti e la cultura popolare, intrisa di misticismo e pratiche magiche, hanno occupato lo spazio dell’indicibile e del non noto, popolandolo di Dei, visioni, versi e immagini. Oggi, di quel mondo non c’è più traccia: i soli deputati a frequentarlo sono i tecnologi, armati di algoritmi e intelligenza artificiale.
Algoritmi generativi, non futuro ma eterno presente
Quando pensiamo al mondo in cui vivremo, ci affidiamo agli algoritmi generativi, ma così facendo non immaginiamo nessun futuro: semplicemente proiettiamo un eterno presente che riassume in un’unica dimensione tutta la nostra esistenza. Il malessere che attanaglia le società occidentali, più ricche e potenti che mai, nasce da questa mancanza di Apocalisse.
Non siamo più nel tempo concluso e circolare dell’antichità, in perfetto equilibrio, ma neanche nel tempo escatologico del cristianesimo e della modernità. Siamo chiusi in un presente continuo, nel quale proiettiamo sulle pareti di una prigione virtuale e concettuale le immagini di ciò che chiamiamo futuro.
L’arte non più grimaldello ma decoro
L’arte, che per secoli è stata il principale grimaldello per bucare l’eterno presente, si è arresa. Anche essa serve solo ad arredare, magari con qualche bel quadro e una colonna sonora d’ambiente, queste pareti in cui i fuochi d’artificio sono prodotti dalla tecnologia.
La critica più radicale all’arte e alla sua funzione è stata sviluppata da Hegel, che si chiedeva che senso potesse avere l’arte nel mondo della ragione, dominato dalla scienza. In cosa l’arte può esprimere un surplus conoscitivo rispetto alle conoscenze scientifiche e alla potenza della tecnica?
L’arte contemporanea ha reagito a questa osservazione rinunciando al “bello” e diventando “arte pensante”, come spesso ricorda Cacciari, uno dei pochi a guardare in faccia questo deserto, prima di tutto filosofico e oggi amaramente anche politico e sociale.
Per secoli, soprattutto dal manierismo in avanti, l’arte ha rappresentato un’anticipazione del “mondo nuovo”, un’apertura di senso che ci ha permesso di approfondire e decodificare il mondo in cui viviamo. Oggi questa funzione di catarsi dell’umanità non è più affidata agli artisti, col il loro alone di follia e visionarietà. È Musk il Picasso dei nostri giorni, è lui ad avere le visioni che un tempo venivano da El Greco; la riscrittura del tempo non passa più da Boccioni, ma è tutta negli algoritmi della Silicon Valley; perfino la nostra percezione non è più ridisegnata dagli Impressionisti, ma dai social.
Se questa è davvero la situazione, come ci avrebbe insegnato chi di rivoluzioni se ne intendeva, “Che fare?”.
Le possibili strategie sono diverse. Si potrebbe elaborare un’altra teoria, un’altra filosofia del vivere da contrapporre a quella riduzionista dominante, ma le teorie nascono dai movimenti della storia, non dai convegni di esperti. Si può guardare con nostalgia al passato, rimpiangendo i “bei tempi andati, dolci e lenti” (Gozzano), ma questo non è forse ciò che stiamo già facendo? Tutta la pubblicistica anti-ICT non è forse un tentativo di illudersi che si possano riportare indietro le lancette della storia? Non è forse un’illusione credere nella centralità dell’uomo, quando questa non si fonda su nessuna premessa se non sul fatto che così è stato per migliaia di anni?
Le stesse considerazioni di Galli della Loggia e Ricolfi sulla presunta migliore qualità della scuola di un tempo rientrano in un disperato tentativo di reagire girandosi indietro, opponendosi allo strapotere della tecnologia e al nuovo mondo che sta disegnando.
L’arte come possibilità di resistenza

Ma c’è un’altra tattica: quella che da sempre utilizzano gli eserciti minoritari e più deboli ma che conoscono il territorio. La guerriglia, la resistenza.
Accettare questo ruolo subalterno dell’arte nella creazione dello spirito del tempo non è una sconfitta, ma una strategia di resistenza. Bisogna tornare nelle catacombe e ricostruire un senso del fare arte, sapendo che il mondo ha espresso una potenza superiore e le conferisce un ruolo marginale.
Scrive Severino in Cosa arcana e stupenda, il libro dedicato al genio di Leopardi: “Cresce la poesia (l’arte), la forza di guardare la crescita ormai senza limite del deserto”.
Guardare il deserto: questa è l’unica forma di resistenza possibile per l’arte del XXI Secolo. Non più la pretesa di svelare un senso ultimo del mondo, ma testimonianza della frattura, del negativo, dell’assenza di fondamento. Come dice Cacciari “l’arte oggi non si pone più come creazione di senso, ma come espressione dell’abisso“, suprema azione di resistenza.
Come diceva Fortini: “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi“.
Domenico Ioppolo
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