Intellettuali e Popolo. La dissoluzione delle figure guida nell’epoca della disintermediazione 

L’intellettuale e l’artista per secoli interpreti del presente e anticipatori del futuro, oggi sembrano scomparsi. E colmare quest’assenza, che riflette la frammentazione del presente reinventando questi ruoli, è indispensabile per tornare a immaginare una narrazione collettiva

All’inizio degli Anni Settanta Alberto Asor Rosa pubblicava Scrittori e popoloun testo fondamentale nel dibattito sulla figura dell’intellettuale e dell’artista, portando a conclusione un dibattito, durato un secolo, sul ruolo dell’arte come creazione di opinione e direzione, tra separatezza e impegno, populismo ed élite.
Un dibattito che aveva coinvolto tutta la cultura europea da Eluard a Sartre, da Picasso a Guttuso, da Adorno a Foucault, dalla Voce a Corrente; poi Vittorini e Togliatti, Moravia e Morante, Grotowski e Ronconi; passando per Olivetti e Feltrinelli; fino a Fortini e Pasolini che forse ne sono stati gli interpreti più radicali. 
Nel giro di alcuni decenni di quel dibattito, della funzione dell’intellettuale e del suo ruolo nella società non è rimasta più alcuna traccia.

L’intellettuale e l’artista, per secoli figure in grado di interpretare e orientare il presente

Per secoli, la funzione ordinatrice dell’immaginario collettivo è stata svolta da figure capaci di pensiero critico e visione: intellettuali, chierici, filosofi, artisti, élite dirigenti. Queste figure non solo interpretavano il presente, ma lo orientavano, esercitando un ruolo di mediazione tra la riflessione teorica e l’organizzazione sociale, tra la creazione simbolica e la progettualità politica. Oggi, invece, tali presenze appaiono estromesse dallo spazio pubblico, eclissate da una narrazione tecnologica che ne ha decretato l’inutilità, e forse l’obsolescenza; l’idea stessa di Futuro, che è stata storicamente ad appannaggio di sacerdoti e artisti, sembra essere stata “appaltata all’apparato tecnologico”.
La cifra dominante del nostro tempo è l’atomizzazione: una frammentazione radicale dell’esperienza e della soggettività, che produce smarrimento cognitivo e una crescente incapacità collettiva di leggere il reale. In un contesto dominato da forme di isolamento, viviamo in una società hikikomorizzata e le uniche forme di coesione sembrano ridursi a mode effimere: brand, influencer, eventi virali che fungono da fugaci punti di contatto ma non generano né senso né direzione.

L’intellettuale e l’artista come simbolo e sintomo

La figura dell’intellettuale – e, parallelamente, quella dell’artista – ha rappresentato per secoli un architrave dell’immaginazione sociale. L’intellettuale era il depositario della riflessione critica; l’artista, l’incarnazione della sensibilità creativa, del gesto capace di prefigurare mondi. Entrambi agivano come mediatori culturali, interpreti del presente e anticipatori del futuro. Ma nella contemporaneità liquida e disintermediata, queste figure sembrano aver perduto la loro centralità. Non si tratta di assenza di talento o visibilità, bensì di un depotenziamento simbolico, la loro voce, un tempo capace di provocare scarti di senso, risvegli della coscienza e dibattiti anche feroci, è oggi inglobata in una babele digitale dove tutto si equivale e nulla si sedimenta.
Viviamo in un’epoca in cui la comunicazione è incessante ma la comprensione è intermittente, dove ogni soggetto è esposto ma raramente ascoltato. In questo contesto, la figura dell’intellettuale e dell’artista – come traduttori, tessitori, visionari – si rivela tanto più necessaria quanto più è marginalizzata.

Disintermediazione e crisi del senso

Come si è giunti a questa condizione? E quali le conseguenze per la coesione sociale e la capacità progettuale collettiva?
L’iconoclastia con cui è stata combattuto il mondo delle idee, erroneamente derubricato ad “ideologia”, negli ultimi anni ha finito per far scomparire qualsivoglia dibattito intellettuale e prospettiva artistica.
Il tratto strutturale del presente è la disintermediazione: un processo reso possibile – ma non determinato – dalla rivoluzione tecnologica. La crisi non è tanto nei contenuti, quanto nei contenitori simbolici. L’erosione di miti condivisi, l’estinzione di simboli aggreganti, ha generato una desertificazione del senso storico. L’uomo contemporaneo non è privo di strumenti – anzi, dispone di tecnologie potentissime – ma ha smarrito la capacità di orientarle verso un fine. La tecnologia, di per sé, non è responsabile della crisi, è la narrazione che l’ha accompagnata a rivelarsi devastante. Un racconto ideologico che ha proiettato il progresso tecnico come destino inevitabile, neutro, autosufficiente, rimuovendone la dimensione culturale, etica e storica.
Per secoli l’uomo ha adoperato la tecnica; solo recentemente ha iniziato a sacralizzarla. È questa nuova mitologia – binaria, manichea, priva di profondità – ad aver soppiantato la narrazione intellettuale e artistica. Non più mediazione ma accelerazione, non più interrogazione ma ottimizzazione. Il pensiero cede il passo all’efficienza, la contemplazione alla prestazione, non è necessario avere un obiettivo, un fine, ciò che conta è avere qualche cosa di nuovo, un tool da utilizzare.

Il collasso di mediatori simbolici, come l’intellettuale e l’artista

A rendere più drammatica la situazione è la progressiva scomparsa dei mediatori sociali: partiti, sindacati, scuole, movimenti, chiese. Strutture che, pur nei loro limiti, fungevano da interfaccia tra individuo e collettività, offrendo senso di appartenenza e grammatica della partecipazione. La loro dissoluzione ha accentuato l’isolamento e la frammentazione, rendendo sempre più ardua la costruzione di narrazioni comuni. La koinè simbolica che rendeva possibile il riconoscimento reciproco è stata sostituita da un mosaico di linguaggi autoreferenziali, ciascuno blindato nel proprio algoritmo, vere bolle di comunicazione autoreferenziali, echo chambers prive di qualsivoglia pensiero dialettico. La dispersione dei riferimenti è testimoniata da ricerche come quella di Campus sulla mitologia giovanile, dove su 1.200 intervistati troviamo oltre 580 riferimenti distinti. Non esistono più modelli egemonici, ma una galassia di figure prive di universalità, ciascuna significativa per una nicchia ma incapace di parlare a tutti. È il trionfo dell’idiolettismo culturale, che impedisce la costruzione di un’identità collettiva e condanna le nuove generazioni a una sorta di afasia simbolica. Gramsci aveva colto con lucidità il ruolo dell’intellettuale come “funzionario dell’egemonia culturale”, attore della produzione di un “senso comune” rinnovato. Oggi, quella frattura tra cultura e società, tra pensiero e quotidianità, si è trasformata in un abisso. L’intellettuale non è più “altrove”, come denunciava Gramsci: è assente. E non perché manchi di pensiero, ma perché manca di funzione. Nessuna classe emergente lo reclama, poiché il potere tecnico si legittima da sé, attraverso i dispositivi e le narrazioni che produce.

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

Il tramonto dell’intellettuale collettivo

Il passaggio dai partiti di massa ai partiti personali, emblematicamente inaugurato dall’era berlusconiana in Italia, ha sancito la fine dell’intellettuale collettivo. L’adesione non avviene più sulla base di un progetto ideale e quindi non esiste la necessita di una elaborazione di idee. Se nel Novecento si trattava di una figura organica, partecipe della costruzione di un’egemonia morale e culturale, la personalizzazione della politica ha disarticolato questa funzione, sostituendola con figure funzionali alla logica performativa del presente: tecnici, comunicatori, influencer.

Senza figure di riferimento, come l’intellettuale e l’artista, viene meno lo Steering Committe sociale

Lo Steering Committe della società sembra sciolto. Nessuno detta più la linea, nessuno elabora visioni capaci di generare orientamento collettivo. Questo vuoto non è solo politico o culturale, è simbolico. È il collasso di un’intera architettura di produzione del significato. Non esistono più progetti politici ma neanche utopie artistiche che non siano già inglobati nell’orizzonte tecnologico. Non c’è visione che non sia già colonizzata dal presente. Senza telos, la prospettiva si riduce a un eterno presente, in cui la tecnica diventa non mezzo ma fine, soggetto desiderante che promette la soddisfazione immediata dei bisogni. Bisogni infantili, privi di sublimazione, di educazione, di maturità. Lo stesso linguaggio si adatta a questa regressione, diventa mimetico, privo di sintassi e complessità. Basti pensare alla drammaticità dell’incontro tra Trump e Zelensky nello Studio Ovale, simbolo di un tempo che ha perso il proprio lessico e la propria grammatica. È vero, i simbolisti e i surrealisti stravolgevano la sintassi ma mantenevano intatta la grammatica, oggi lo stravolgimento del linguaggio riguarda non solo il senso ma le forme stesse della costruzione linguistica.

Un’alleanza tra umanesimo e tecnica? Essenziale per reinventare i ruoli chiave di intellettuale e artista

Se vogliamo ritrovare il filo della narrazione collettiva – o forse solo reimparare a raccontarla – è necessario tornare a immaginare. Non come evasione, ma come esercizio progettuale. Immaginare il futuro non come mera proiezione del presente, ma come apertura del possibile. Per farlo, bisogna reintegrare intellettuali e artisti nello spazio pubblico: non come élite autoreferenziali, ma come mediatori simbolici, artigiani del senso, educatori del desiderio.
L’alternativa non può essere né la tecnocrazia né l’individualismo assoluto. Serve una nuova sintesi, un umanesimo rinnovato, capace di dialogare con la tecnica senza esserne soggiogato un compito, come spesso ricordava Papa Francesco, “che coinvolge l’intera famiglia umana”. Un umanesimo che reinserisca la narrazione dentro la storia, la sensibilità dentro il sapere, l’etica dentro l’innovazione. La scomparsa dell’intellettuale e dell’artista come figure di guida è il sintomo più eloquente di una crisi più ampia: quella della capacità collettiva di proiettarsi nel futuro, ormai totalmente abbandonato alle capacità messianiche della tecnologia. In un’epoca segnata dalla frammentazione simbolica, dalla paralisi generazionale e dalla narrazione totalizzante della tecnica, la ricostruzione di un orizzonte condiviso passa necessariamente attraverso la riattivazione delle funzioni creative e critiche. Non si tratta di restaurare un ruolo perduto, ma di reinventarlo. Se vogliamo riprendere il senso della storia dobbiamo ritornare a immaginare mondi. Solo così potremo tornare a pensare, a parlare, a pensare insieme e dare un senso al nostro vivere insieme

Domenico Ioppolo

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Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo è Amministratore Delegato di Campus e direttore del Milano Marketing Festival. È stato Managing Director Emea di Nielsen Media, Ad di WMC, Initiave Media e Classpi. Ha insegnato in Università italiane e straniere, pubblicando diversi contributi su media e marketing,…

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