Gli Hombres Tejedores e la questione femminile cilena
Poetesse e intellettuali femministe. Registe impegnate. Artiste di frontiera. E una Presidente donna. Il Cile vanta, storicamente, presenze femminili di pregio nel campo della cultura e dell’attivismo politico. Ma la questione della parità di genere e dei diritti è tutt’altro che risolta. Un gruppo di uomini, oggi, scende in campo. Con un progetto di sensibilizzazione e comunicazione, che somiglia a una performance artistica.
Contro le gabbie e i pregiudizi delle società patriarcali; contro modelli inadeguati, improntati allo stereotipo. Contro il maschilismo e per una società inclusiva, tollerante.
È la battaglia degli Hombres Tejedores, uomini che stanno dalla parte delle donne. O meglio, dalla parte dei diritti e della parità. E dalla parte stessa del cosiddetto sesso forte: desideroso di affrancarsi da una certa retorica machista, tradizionalmente oppressiva, arrogante.
In Cile sono già delle star. Sui social spopolano. Strumenti del successo? Ago, filo, lana, ferri e uncinetti. I tessitori cileni scelgono un’attività tipicamente femminile, per definirsi in un’altra veste rispetto a quella diffusa, radicata. L’identità di genere? Un fatto culturale, plastico, da ripensare. Oltre la trappola stucchevole dei ruoli.
In Cile la questione è irrisolta. E nonostante a guidare la Nazione ci sia, dal 2014, una donna, per di più di sinistra, impegnata da sempre a favore della causa, alcuni lamentano un’azione ancora troppo debole da parte del governo.
CILE, UNA DONNA AL COMANDO
Certo è che Michelle Bachelet, in fatto di donne e di diritti civili, qualcosa da raccontare ce l’ha. Già Presidente del Cile dal 2006 al 2010, ex ministra della Salute e della Difesa, tra il 2010 e il 2013 ha diretto l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile. Una carriera folgorante e una personalità da leader, strutturatesi sulla scorta di un’eredità dolorosa: torturata a soli venticinque anni nelle prigioni di Pinochet, in quanto militante socialista e figlia di uno dei più stretti collaboratori di Allende, Bachelet fuggì come profuga politica negli Anni Settanta, prima in Australia e poi in Germania, potendo rientrare in Patria solo nel 1979, dove si laureò in medicina.
La sua rielezione è un simbolo, di per sé. Ma la ricaduta concreta, sul piano della vita di cittadine e cittadini, c’è stata. Netta, fin dal primo mandato, la mobilitazione per l’introduzione delle quote rosa all’interno delle istituzioni democratiche; così come era e resta forte l’impegno per le questioni relative alla pillola anticoncezionale, all’assistenza clinica e all’informazione in materia di fertilità.
Un cammino tortuoso, logorato da un dibattito di fuoco e dall’opposizione strenua degli organi di Stato (la Consulta, nel 2008, revocò un decreto per la libera somministrazione della pillola del giorno dopo, presso i consultori), delle associazioni pro-vita, dei parlamentari conservatori e soprattutto della Chiesa Cattolica, la cui influenza in Cile è particolarmente invasiva.
Lentamente e a fatica, qualche risultato arriva. Un esempio recente riguarda le modifiche alla legge sull’aborto, introdotta nel 1989 da Pinochet: il Cile era uno dei pochi Paesi al mondo in cui vigeva il divieto totale di abortire. Risultato? Ogni anno migliaia di cilene si sottopongono ad aborti illegali, costosi e pericolosi. Non potendo esercitare alcun diritto sul proprio corpo: diritto alla salute, alle cure, alla libera autodeterminazione.
Nella primavera del 2016, grazie all’impegno del governo e nonostante le roventi polemiche, il Parlamento ha approvato un nuovo testo di legge, che autorizza l’aborto quando la madre è in pericolo di vita, quando il feto è malformato e quando la gravidanza è frutto di uno stupro.
Un primo passo, nel lungo cammino progressista e democratico, avviato in un contesto che ancora sconta gli strascichi della dittatura: la Commissione Nazionale sulla Prigionia Politica e la Tortura ha raccolto le testimonianze di 3.399 donne. Oltre la metà di queste furono imprigionate nel 1973, quasi tutte furono oggetto di atroci torture e violenze sessuali. Pochissime, a oggi, hanno ottenuto giustizia.
IL RICAMO COME PERFORMANCE
Un Cile, in realtà, che vede moltissime donne brillare nel campo della cultura e della militanza: da scrittrici come Isabel Allende e Marcela Serrano, a registe come Valeria Sarmiento e Marilú Mallet, passando per artiste come Lotty Rosenfeld, Cecilia Vicuña, Violeta Parra, Sandra Vásquez de la Horra, Paz Errázuriz, fino a un’attivista indio come Francisca Linconao, arrestata per le sue azioni contro i latifondisti e in difesa dei territori Mapuche. A testimonianza – oggi come ieri – di una ferrea volontà di resistenza ai pregiudizi.
Eppure, il percorso per una mutazione capillare è ancora lungo, complesso. E riguarda i vertici istituzionali così come le fasce popolari.
Basti dare un’occhiata a qualche numero: secondo un articolo pubblicato su La Stampa nel 2015, un dossier dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rivela “che il 10% dei cileni considera giusto picchiare di tanto in tanto la propria partner. Il 29% ha detto di aver esercitato su di lei una qualche violenza fisica e l’11% è convinto che quando una donna viene stuprata, abbia in genere fatto qualcosa per provocare il delitto”. E ancora: solo il 3% dei dirigenti d’azienda cileni sono femmine, mentre una donna guadagna in media il 30% in meno rispetto a un uomo e le quote rosa, in politica, sono ferme al 16%.
Ed è qui, al livello del sentire comune, degli automatismi culturali e di quell’immaginario collettivo da ricolonizzare, che gli Hombres Tejedores provano ad agire – sulla scia del lavoro condotto dalle tante associazioni femministe cilene e latinoamericane –, mettendo in scena un cortocircuito rituale e metaforico. Ritrovarsi, fare gruppo, condividere luoghi e gesti, diffondere testimonianze, per gioco e per impegno: 12 uomini, tra i 26 e i 42 anni, si mettono a cucire, a rammendare, a lavorare a maglia. Niente di più semplice, niente di più disturbante. “Quello che all’inizio poteva apparire un semplice hobby è divenuto velocemente un messaggio politico”, ha spiegato il trentaseienne Richardo Higuera. “Tutti facciamo mestieri diversi. Ciò che ci unisce è che siamo cresciuti in una società patriarcale, che ci dà un ruolo ben preciso: un uomo non deve essere sensibile, non può piangere, deve essere forte”.
Workshop, eventi, incontri in spazi pubblici, musei inclusi. Come quando si “esibirono” al Museo Nacional de Bellas Artes di Santiago del Cile, il 26 novembre 2016, in occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza di Genere. Un’operazione intelligente di comunicazione e sensibilizzazione sociale, un esperimento collettivista; ma anche, se vogliamo, una specie di performance. Messa a punto da persone qualunque, ma assimilabile a un’azione artistica di taglio politico-relazionale. Cucire, insieme. E provare a demolire il sentimento della vergogna, a metter via la corazza, a ripensare i linguaggi e i costumi. La questione della forza e della debolezza si problematizza, ricollocandosi in una nuova mappatura emotiva, sentimentale, intellettuale.
Il gancio – più o meno consapevole – è a un capitolo ampio dell’arte contemporanea, in cui ha trovato posto, per la sua pregnanza storica e simbolica, la liturgia del ricamo, del cucito, della tessitura, fra indagini intime, psicologiche, geopolitiche, sessuali, liriche o concettuali. Qualche uomo (da Boetti a Vezzoli, passando per Mike Kelly) e una lunga serie di artiste: da Lenore Tawney a Maria Lai, da Louise Bourgeois a Polly Apfelbaum, da Ghada Amer a Rosemarie Trockel, da Tracey Emin a Joana Vasconcelos, da Mona Hatoum a Anne Wilson, arrivando a moltissime esponenti delle nuove generazioni. Il mito di Penelope, riletto e sviscerato, nella vita quotidiana così come nella grammatica creativa di tante donne, a tutte le latitudini.
GABRIELA MISTRAL, POETESSA, MAESTRA E RIBELLE
Restano, come un faro prezioso, le parole di straordinarie muse del passato. Come Gabriela Mistral, poetessa cilena di sangue indio, con origini basche ed ebree, insegnante e pedagoga, femminista, lesbica, viaggiatrice, figlia di contadini, inossidabile democratica. Prima donna latinoamericana a ricevere, nel 1945, il Premio Nobel per la Letteratura.
Intellettuale fuori dagli schemi, cristiana, lontana dai circuiti accademici, ma anche da quelli di un certo femminismo di maniera (tanto da dividere la critica sul vero orientamento del suo pensiero), Mistral – che non ebbe figli – coltivò un’epica personalissima, nutrita di nostalgia, amore per la terra, la natura e la tradizione, sensibilità per l’infanzia e il femminino: “Che sia una professionista, una lavoratrice, una contadina, o semplicemente una gentildonna, la sua unica ragione per stare in cima al mondo è la maternità, sia materiale che spirituale. O solo quest’ultima, per quelle di noi che non hanno bambini”. Tutto ciò si coniugava, però, con l’impegno per la liberazione dal giogo del patriarcato e dalle catene dell’ignoranza. Incastrando il valore della differenza e l’imperativo della parità, tramite l’accesso al sapere, al lavoro, al potere, ai diritti.
Così scriveva, nel 1906: “In tutte le età del mondo in cui la donna è stata bestia per i barbari e schiava per i civilizzati, quanta intelligenza perduta nell’ignoranza del suo sesso! Quanti talenti non avranno potuto vivere nella schiavitù vile, non sfruttati, ignorati!
Istruite la donna; ché non c’è niente in lei che la collochi in un punto più basso dell’uomo.
Che possa portare nel cuore una dignità in più, per la vita: la dignità dell’istruzione.
Che qualcosa, oltre la virtù, la renda meritevole di rispetto, ammirazione e amore.
Avrete, nel gentil sesso istruito, meno donne miserabili, fanatiche e inette.
Che con tutto il suo potere, la scienza come il Sole, possa irradiare la sua mente.
Che l’istruzione le faccia conoscere la viltà della donna venduta, corrotta.
E la fortifichi, per le battaglie della vita.
Che possa arrivare ad avere valore per sé stessa, e la smetta di essere quella creatura che agonizza e finisce in miseria, se il padre, il marito o il figlio non la proteggono più.
Più futuro per la donna, più aiuto! Conquisti tutti i mezzi, affinché possa vivere senza mendicare protezione”.
Cent’anni dopo, la battaglia è ancora aperta. In trincea, accanto alle donne cilene, anche alcuni uomini. A cercare, come loro, una nuova dignità: non più padroni, ma compagni.
Helga Marsala
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