Dall’Arcadia vittoriana ai nightclub di Soho. Queer British Art a Londra
La Tate Britain di Londra commemora i primi cinquant’anni dalla parziale depenalizzazione dell’omosessualità in terra inglese con una mostra-pietra miliare. Un excursus tra omoerotismo, estetismo, esotismo ed espressionismo nell’arte made in UK, dall’età della regina Vittoria alla swinging London. Un percorso che cerca di ridefinire il motto “niente sesso, siamo inglesi”, contestualizzandolo rispetto a un tabù punito per legge: molto sesso, purché non lo si dichiari. Così è o era, se vi pare, lo stile di vita omoerotico British: tra matrimoni non voluti, relazioni aperte e lavori forzati.
È una mostra storico-artistica, attenta – siamo alla Tate Britain – a presentare al pubblico cosa l’arte inglese sia stata nel corso del tempo; ma calata nel presente, in quanto mette in luce relazioni di potere che, in questo caso più che in altri, hanno decretato artisticamente rappresentazione e sublimazione, censura e trasgressione, conformismo e simbolizzazione. E tali conflitti e negoziazioni risuonano, imperturbabilmente, fino ai nostri giorni. La mostra va dal 1861, anno dell’abolizione della pena di morte per atti omosessuali, al 1967, anno della parziale depenalizzazione per gli stessi atti (relegati ai soli luoghi privati). Il termine queer presente nel titolo è stato scelto per circoscrivere parole – gay, lesbismo, transessualità, transgender e altre – che, durante l’età della regina Vittoria, non erano ancora state inventate, entrate nell’uso comune o semplicemente ignorate: basti ricordare che, se l’omosessualità maschile era severamente punita per legge, quella femminile, per i giuristi (e la regina Vittoria) non esisteva nemmeno. Inoltre, il termine queer (strano, bizzarro, inusuale, eccentrico), tradizionalmente usato in inglese con accezione offensiva, quindi mutuato come termine identitario, ha una radice che rimanda a un verbo, “torcere”. Ciò che vediamo è, a tutti gli effetti, una torsione e un voltafaccia all’ordine costituito: la sovversione dello status quo che diventa arte, spesso nascosta nei cassetti e nelle soffitte degli artisti o esposta pubblicamente. Purché sotto ambigue spoglie.
ARTE E ANDROGINIA
“Ma mio caro collega, questa non è Afrodite, è Alessandro”. Come riportato dal pittore Walter Graham Robertson, pare sia stato Frederic Leighton, artista e direttore della Royal Academy of Arts, ad aver riconosciuto tra i primi il modello per la dea nella Rinascita di Venere, a opera di Walter Crane (1877). L’apparizione di un nudo femminile diafano, ispirata a Botticelli, modellato a partire da una scultura classica, mostrerebbe infatti le fattezze di Alessandro de Marco, uno dei modelli preferiti di Crane. Robertson scriverà: “Era plausibile come Venere, e abbastanza gradevole”. L’androginia come topos artistico, usata in modo volutamente mistificatorio o meno, era del resto moneta comune tra preraffaelliti e artisti seguaci dell’arte per l’arte. Tra i nomi in mostra che ritraggono sembianti dal genere fluido spiccano Simeon Solomon, Sidney Harold Meteyard, e lo stesso Leighton. Fino alle illustrazioni dalla forte carica erotica di Aubrey Beardsley, per il dramma teatrale Salomè di Oscar Wilde (1893). L’androginia in arte era del resto sopportata dai censori vittoriani; diversamente il nudo integrale. Riflettendo su I giocatori di bocce, firmato dal pennello di William Blake Richmond, Lady Frederick Cavendish, una commentatrice del tempo, dirà: “Antichi che giocano a bocce senza niente addosso… Qualcosa che non posso apprezzare”. E i nudi, tra gesti atletici e pose plastiche, fanno di tutto per nascondere le vergogne.
GROSS INDECENCY
È una mostra morigerata, questa della Tate. In puro stile British: l’erotismo più esplicito è concentrato in alcune illustrazioni fortemente caricaturali, a firma del mai sobrio Aubrey Beardsley, per la commedia di Aristofane Lisistrata (1896). Il resto è lasciato all’intuizione, al non finito, a un’espressione ora melanconica ora quasi sgomenta. Fra tutte risalta quella meditabonda di Radclyffe Hall, un’icona per i diritti gay in Inghilterra, autrice dE Il pozzo della solitudine, libro daI contenuti a tema saffico (messo al bando poco dopo la pubblicazione). Qui, Hall è ritratta da Charles Buchel (1918). Fa da contrasto lo sguardo sicuro di Oscar Wilde, nel ritratto a figura intera di Robert Harper Pennington (1881 circa): un galantuomo impeccabile, ventisettenne, al culmine del successo. Il ritratto sarà più tardi acquistato da Ada Leverson, amica dello scrittore, per aiutare l’autore sommerso dai debiti: sono gli anni dei processi contro il marchese di Queensberry, padre di Alfred Douglas, amante di Wilde. Nel 1895, la condanna per gross indecency (atti osceni), come veniva pudicamente etichettata l’omosessualità maschile, segnerà la vita di Wilde in modo irreversibile. Per volere della moglie di Leverson, il dipinto – ironia della sorte, come il ritratto di Dorian Gray – sarà tenuto nascosto in soffitta. Qui in mostra è esposto accanto a una porta, proveniente dalla cella di Wilde dal carcere di Reading, dove lo scrittore sconterà, dal 1595 al 1597, due anni di lavori forzati.
IL POTERE DELLE IMMAGINI. IN SILENZIO
Visibilità e invisibilità, pubblico e privato, segreto e manifesto. La fenomenologia dell’“amore che non osa dire il suo nome” (Wilde) si riflette nell’opera di artisti che devono infrangere le regole per sopravvivere: lo si può, lo si deve dire, ma mai gridando; o, se lo si grida, lo si faccia pure in una lingua familiare, purché risulti oscura. Eve Kosofksy Sedgwick, storica della letteratura inglese, uno dei nomi di punta della teoria queer, ha evidenziato come il “restare incogniti, non dichiarati” (closetedness) sia “un atto performativo, iniziato come tale dall’atto del silenzio. Non un silenzio particolare, ma un silenzio che cresce, con attacchi e riprese; a partire dal discorso che lo circonda, e che lo costituisce per differenza”. Se numerose opere a contenuto più esplicitamente omoerotico – bozzetti e disegni, come quelli di Keith Vaughan e Duncan Grant, in bilico tra figurazione e astrattismo – sono arrivate a noi, lo si deve all’uso esclusivamente privato che ne veniva fatto, e agli amici e agli intimi degli artisti, che fortunosamente hanno ritrovato tali archivi. Altre opere nascondono significati ai limiti dell’illusionismo ottico: come quelle di Glynn Warren Philpet, il quale, re-immaginando il tema biblico della Fuga in Egitto, include una gigantesca figura maschile – ritratto di un suo servo e modello – in forma di paesaggio. O, ancora, nell’opera di artiste come Ethel Walker topos classici nascondono costanti omoerotiche appena suggerite, nonostante i libertari Anni Venti alle porte (L’escursione di Nausicaa, 1920). La soggettività degli artisti emerge, infine, schiettamente nei ritratti: come l’intenso primo piano di Gluck (al secolo Hannah Gluckstein), in un autoritratto del 1942; o quello della scrittrice Vernon Lee, a firma di John Singer Sargent (1881). Li separano sessant’anni: la moda cambia, l’orgoglio è lo stesso.
SODOMA E GOMORRA, SOHO E LOS ANGELES
La mostra si ferma al 1967, anno di parziale depenalizzazione dell’omosessualità in Inghilterra; a oltre un secolo di distanza dall’abolizione della pena di morte per gli stessi atti, un tempo “osceni”. Siamo a una mostra sull’arte inglese e non si poteva non dedicare una stanza a Francis Bacon e a David Hockney (con posti d’onore anche nella collezione permanente della Tate. Del secondo la personale in corso, sempre nello stesso museo, è la mostra con maggior numero di prevendite nella storia della Tate). Due facce della stessa medaglia. Da una parte claustrofobiche visioni di interni e figure umane devastate, decostruite o semplicemente colte in rapido movimento. Bacon le dipingeva spesso tra le mura di Soho, il quartiere londinese queer per eccellenza, definito dall’artista “la palestra sessuale della città”. Dall’altra, l’olimpica rappresentazione di gentiluomini trendy en plein soleil, a bordo piscina a Los Angeles o in salotti londinesi immersi nella luce. Di Hockney è esposto Pittura dal vero per un diploma, presentato dall’artista nel 1962 al Royal College of Art, come opera per l’esame di laurea. È l’immagine di un body builder sorridente e radioso, accanto a uno scheletro: divertissement e statement artistico insieme, firmato da un pittore autodefinitosi da sempre recalcitrante rispetto al realismo in arte. Di Bacon sono invece esposti Due figure in un paesaggio (1956) e Figura seduta (1961). Mortificazione o sublimazione del contingente, ammantato o soffocato da eleganti interni porpora, verdi e indaco. L’artista dirà: “Odio le atmosfere accoglienti… Voglio isolare l’immagine e proiettarla lontano dall’interno e dall’edificio”.
A guardarla oggi, la storia queer britannica è stata un armadio pieno di scheletri; grazie agli artisti, spesso, un armadio pieno di fiori.
– Elio Ticca
Londra // fino al 1° ottobre 2017
Queer British Art 1861-1967
TATE BRITAIN
Millbank
www.tate.org.uk
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