Il tema è attuale e sembra prendere quota ultimamente. In accordo con quella parola costante che da una decina d’anni getta la sua ombra sui sistemi finanziari, gli schemi politici e i costumi diffusi dell’Occidente globalizzato. Epoca di “crisi”, e dunque di fallimenti. La si ritrova, la faccenda del “fallimento”, nella ricerca di tanti artisti contemporanei, declinata in diversi modi e livelli (a proposito è in uscita, per Postmediabook, il nuovo saggio di Teresa Macrì, con excursus che vanno da Cattelan a Jeremy Deller, da Chris Burden a Iggy Pop). Segnale scomodo di una tendenza invertita: la società dei consumi, della competizione, dei corpi patinati e dei carrierismi, dell’ultra potere tecnologico, del liberismo in corsa e del successo come imperativo esistenziale, a un certo punto prende atto della sua fragilità. Fallire è umano, forse giusto, certamente interessante. Contro una narrazione collettiva che si avvita attorno a una tensione autistica, muscolare, inutilmente efficentista.
UN MUSEO PER RACCOGLIERE STORIE FALLIMENTARI
Eppure, di fallimenti è costellata la storia della produzione industriale e postindustriale, tra marketing e tecnologia. Tanto che a qualcuno è venuto in mente di farci un museo. Il Museum of Failure sarà inaugurato il prossimo 7 giugno a Helsingborg, città nel sud della Svezia. A inventarlo il dottor Samuel West, studioso di psicologia organizzativa, che al tema ha dedicato lunghe ricerche. Fino al punto da metter su una collezione di circa 60 oggetti, incarnazioni comuni del senso del fallimento, secondo il “business rischioso dell’innovazione“. Insomma, una archivio di flop, una fenomenologia dell’errore, una sfilata di calcoli sbagliati che hanno trasformato belle intuizioni in tristi insuccessi. Tutto estremamente affascinante. Sia come inventario di case history, per capire attraverso ciò che non funziona quali sono i metodi da affinare, le strade da seguire. E poi, come insegna West, per “dimostrare che l’innovazione richiede il fallimento“. Due voci interconnesse, se è vero che chi si lascia paralizzare dalla paura di sbagliare non avrà mai sufficiente ardimento e ardore per lanciarsi in un’avventura nuova, radicale.
LA TRISTE STORIA DEI GOOGLE GLASS
Ma cosa vedremo in questo strano tempio delle cause perse? Tutti mega marchi, per cominciare. Caso emblematico quello dei mirabolanti Google Glass, occhiali come protesi digitali per esperienze di realtà aumentata, finiti in cantina prima di decollare: prezzo alto, funzione ambigua, scarsa protezione dei dati informatici personali e qualche problema di emicrania. Il più grande fallimento del colosso di Mountain View.
Ma ci sono anche le sciocche penne Bic for Her, sbeffeggiate impietosamente sui social (una biro speciale per il sesso debole?), la Coca Blak aromatizzata al caffè, che non ha conquistato le papille dei consumatori, o ancora il Nokia N-Gage, consolle portatile con funzione di videogioco, telefono, radio, lettore mp3, lanciata nel 2003 e ritirata qualche anno dopo: troppo costosa e poco efficiente, poggiava su un sistema operativo (Symbian) divenuto presto obsoleto. Nel frattempo sarebbero esplosi i prodigi di casa Apple: iPod, iPhone, iPad. Spazzando via tutto il resto e indicando la strada. Nessuna innovazione, dunque, senza il rischio di cadere. Nessun fenomeno che non abbia prima (o dentro) di sé, il senso e l’esempio di un qualche naufragio.
– Helga Marsala
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