Nairobi art boom
La scena artistica della capitale keniana è in grandissima ascesa, popolata di gallerie, centri culturali, fondazioni e collettivi di artisti che sempre più si stanno affermando come player internazionali. E anche il mercato fa la sua parte. Mentre a Milano ben due sedi espositive – FM - Centro per l’Arte Contemporanea e PAC – hanno scelto di approfondire la scena creativa africana.
È stata ribattezzata la “Green City in the Sun”, ma la capitale keniana Nairobi è molto di più. Città multiculturale, un clima perfetto, con gli spettacolari parchi del Masai Mara a poca distanza. Hub del turismo safari nel mondo, urbanisticamente omogenea, con architetture nuove e costruzioni degli Anni Settanta e Ottanta, calamita per alcune tra le più grandi multinazionali del mondo, nonostante – o forse proprio per – la corruzione endemica e gli slum sconfinati che traboccano di persone scappate dalla povertà delle campagne.
LO SPECCHIO DELL’AFRICA FUTURA
Più che ogni altra cosa, Nairobi è tra le grandi capitali africane dove oggi si percepisce meglio quello cha sta accadendo nel continente: a proposito della creatività, dei giovani, della musica, della moda e dell’arte. È vero che la scena artistica e culturale africana è da qualche tempo sotto i riflettori e che sforna a ritmo serrato artisti e protagonisti in ogni campo della cultura e dell’arte. Un po’ per la rivincita anti-colonialista, ma anche per la crescita delle aspettative democratiche, il declino delle dittature, l’espansione delle economie africane e l’esplosione di Internet e di altre tecnologie, si sono creati nuovi spazi per gli artisti, che sempre più riescono a sbarcare con il loro lavoro al di là dei confini del continente.
Fra i tanti: la pluripremiata scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie e la keniana Yvonne Adhiambo Owuor, che ha fatto molto parlare di sé con il suo ultimo romanzo The Dust. L’Angola che vince il Leone d’oro alla Biennale di Architettura nel 2013, e il curatore nigeriano Okwui Enwezor che dirige la Biennale Arte 2015. La Tate Modern e il Brooklyn Museum che hanno presentato recentemente artisti del Benin, del Sudan e del Kenya. Poi a New York e a Londra la 1:54 Contemporary African Art Fair, che ha presentato le opere di artisti provenienti da 54 Paesi africani. E ancora Sotheby’s e Christie’s che sempre più spesso puntano sull’African Art, mentre le aste di arte contemporanea a Nairobi attirano collezionisti e acquirenti da tutto il mondo.
UNA GALLERIA ESEMPLARE…
“L’arte contemporanea africana, un po’ come la moda, il cinema ma anche la letteratura, non può essere relegata a una reminiscenza esotica, totalmente separata dalla scena internazionale”, ci dice con fermezza Kui Wachira, manager della Circle Art Gallery di Nairobi. Kui è giovane, porta occhiali con una montatura spessa e trendy, e ci mostra in un inglese fluente le opere degli artisti che trattano nel loro spazio. Circle Art Gallery, fondata e diretta da Danda Jaroljmek, si trova a Lavington, a nord-ovest del centro città, periferia residenziale e ricca di Nairobi, con il chiaro obiettivo di diventare sempre di più lo spazio espositivo e l’agenzia di riferimento per l’arte contemporanea in East Africa, con un programma serrato di mostre di artisti emergenti, ma anche nomi di punta, servizi di consulenza ad artisti e istituzioni, e con la partecipazione alle più importanti fiere del mondo. Insomma, una piattaforma importante per artisti e curatori per farsi conoscere dentro e fuori dal Kenya, anche grazie al programma di aste internazionali annuali lanciato nel 2013, che è stato un vero punto di svolta per lo sviluppo del mercato in questa parte di mondo. Tanto che, nell’ultima sessione d’asta, ha battuto diverse opere per decine di migliaia di dollari.
“Quando pensiamo all’Africa”, continua Kui Wachira, “ci vengono in mente solo i colori e i motivi vivaci, i sapeur congolesi, i nomi di fotografi maliani come Seydou Keïta e Malick Sidibé. Tutto ciò ha sedimentato un preciso stereotipo di “African Art”. Tuttavia l’estetica contemporanea è molto diversa: oggi le fonti e le influenze sugli artisti sono molto più sfumate e diversificate”.
… E UN ARTISTA ESEMPLARE
Quando incontriamo Kui alla Circle Art Gallery sta per inaugurare una mostra personale dell’artista keniano Michael Soi. Classe 1972, uno degli artisti definiti di “seconda generazione”, che usa sì colori vivaci ma anche un vocabolario estetico intriso di critica sociale, qualcosa di inesistente fino a qualche tempo fa. Tra i suoi ultimi lavori, la provocatoria serie China loves Africa, venduta alle aste ed entrata in importanti collezioni private e musei in giro per il mondo.
Forse la sua popolarità è anche merito della pubblicità gratuita dell’attrice sua connazionale Lupita Nyong’o, ormai star di Hollywood, che si è fatta ritrarre sui social network mentre indossava una delle famose shopping bag opere d’arte di Soi, dipinta a mano dall’artista. Oggi Michael sta lavorando a una serie di dipinti che denunciano l’industria del sesso a Nairobi e il senso di negazione che ci ruota attorno. “Con il mio lavoro voglio parlare dei problemi delle donne in Africa, in particolare del modo in cui vengono trattate dagli uomini”, racconta l’artista. “Spesso si preferisce non parlare di questi argomenti: nascondiamo la testa sotto la sabbia e facciamo finta che queste cose non accadano. I miei quadri mostrano come le donne siano spesso considerate solo strumenti di piacere, solo un mezzo per gli uomini per raggiungere un fine”.
GLI ALTRI PLAYER IN CITTÀ
Oltre a Michael Soi, sono tanti gli artisti giovani che lavorano a Nairobi e che sono già entrati nel circuito dei collezionisti. Nomi come Dennis Muraguri, Shabu Mwangi, Wanja Kimani, Jackie Karuti, oppure come Paul Onditi, che, dopo essersi trasferito in Germania per qualche anno e aver fatto quasi la fame, ha deciso di rientrare e da lì la sua carriera è decollata, come le sue quotazioni.
“La scena artistica di Nairobi è in grande fermento”, continua Kui. “Fino a qualche tempo fa, l’arte era considerata solamente un hobby, non era nemmeno insegnata nelle scuole. Oggi le cose stanno cambiando alla velocità della luce: gli artisti svolgono un ruolo sociale, parlano dei problemi del Paese, e anche noi abbiamo un ruolo decisamente attivo”.
La Circle Art Gallery non è l’unico player di riferimento in città: sono molteplici le istituzioni private e i centri culturali che fanno la loro parte. La One Off Contemporary Art Gallery e il GoDown Art Centre sono altre due tappe obbligatorie della scena dell’arte contemporanea a Nairobi.
Carol Lees, nata e cresciuta in Kenya, ha fondato la One Off nel 1994 per poi chiuderla nel 2000 (quando è diventata curatrice del Rahimtulla Museum of Modern Art) e riaprirla nel 2009, con l’obiettivo di dare visibilità a una serie di artisti africani con potenzialità di stare sul mercato. Il Go Down Art Center ha invece aperto i battenti nel 2003, in uno spazio che prima era una carrozzeria e che oggi è diventato il primo centro multidisciplinare in Kenya, ospitando artisti impegnati in diverse discipline, con programmi di residenze: un luogo di scambio di creatività e idee, punto di riferimento per molti artisti che riescono a fare networking, posizionarsi sul mercato e avere visibilità.
IL CASO KUONA TRUST
Michael Soi è uno degli animatori del Go Down Art Center e lui stesso si è formato grazie a Kuona Trust, una di quelle istituzioni-pilastro che è stata ed è ancora fondamentale nello sviluppo dell’arte contemporanea in Kenya. Fondata nel 1995, da allora è sempre stata in prima linea, con almeno mille artisti che hanno partecipato ai suoi programmi di residenza. “Siamo un’istituzione completamente indipendente”, ci dice Sylvia Gichia, direttore di Kuona Trust, “e non riceviamo fondi governativi. Lavoriamo con il supporto di donazioni che arrivano dall’estero, soprattutto dall’Europa, anche se oggi sono sempre di meno. La maggior parte dei nostri artisti sono autodidatti e qui lavorano assieme: si confrontano, sviluppano il loro percorso artistico con la supervisione di mentor che di tanto in tanto fanno tappa a Nairobi”.
Kuona Trust occupa uno spazio piuttosto grande a Kilimani, nella periferia a ovest della città, un’area che la gente del posto chiama “Île de France” per il suo carattere multiculturale. A partire dagli Anni Novanta la sua conformazione architettonica è cambiata e i tipici bungalow sono stati sostituiti da appartamenti moderni a più piani, con balconi e giardini. Un quartiere artistico-culturale pieno di giovani: se ne incontrano molti a fare jogging in Dennis Pritt Road, la principale strada della zona, immersa nel verde e piena di caffè e ristoranti. “Nairobi sta cambiando”, racconta Sylvia. “Sono tanti i giovani che guardano con curiosità all’aspetto culturale della vita, all’arte, alla musica, alla moda. L’arte è vista come un luogo sicuro dove poter comunicare, attraverso il quale portare in superficie questioni politiche, sociali e di genere. È una grande opportunità per potersi esprimere, ed è anche quello che cerchiamo di far capire agli artisti”.
Attualmente Kuona Trust ospita trentasei artisti provenienti da diversi Paesi – qui abbiamo incontrato anche Yassir Ali, importante e quotato artista sudanese da tempo trasferitosi in Kenya – che lavorano all’interno della struttura, ognuno con un suo studio/spazio espositivo. “Finalmente cominciamo a vedere artisti keniani alle fiere d’arte in giro per il mondo, alle mostre e agli eventi, e Kuona Trust sta facendo di tutto per supportare sempre più questa tendenza. C’è ancora molto da fare, stiamo cercando di replicare modelli di sviluppo artistico come quelli del Sud Africa, che hanno portato gli artisti a occupare ruoli di rilievo a livello internazionale”.
ARTIST-RUN-SPACE
La dimensione del lavoro di gruppo, secondo Sylvia Gichia, aiuta gli artisti a confrontarsi e ad accelerare il loro percorso. E infatti oggi in Kenya un’altra realtà in forte ascesa è quella dei collettivi di artisti, che si uniscono per lavorare assieme, cercare l’affermazione e a loro volta insegnare ai più giovani. Tra i più established ci sono il Mukuru Art Centre, il Dust Depo Art Studio e soprattutto Brush Tu, attivo in uno spazio creativo che attualmente ospita cinque artisti a Buru Buru, nella periferia est della capitale.
Fondato a metà del 2013, ha come obiettivo principale quello di sfruttare il potenziale artistico del gruppo e sviluppare progetti in forma collaborativa. Il nome, che significa “solo pennello”, deriva dalla tendenza degli artisti kenioti a usare vernice e pennello come mezzo preferito di espressione. Visto dalla strada, Brush Tu ha un aspetto piuttosto anonimo, nessuna insegna e un giardino mal tenuto. Ma questo poco importa ai tre giovani artisti che nel 2013, discostandosi dai soliti percorsi di ricerca di sponsorizzazioni o di sostegno istituzionale, si sono uniti per condividere i costi, aumentare la loro visibilità e mantenere l’indipendenza. “Ci sono sempre questioni complicate da dover affrontare quando si è in qualche modo supportati, sia dai privati sia dalle istituzioni”, dice Boniface Maina, uno dei fondatori del collettivo assieme a Michael Musyoka e David Thuku, “e la tendenza è quella di andarsene. Noi non vogliamo trovarci in questa situazione, e di conseguenza abbiamo fatto questa scelta”.
E LA POLITICA LATITA
Un approccio deciso, quello dei fondatori di Brush Tu, dettato chiaramente anche dalla realtà di un Paese in cui il supporto governativo alla cultura è pressoché inesistente. “Il governo sponsorizza eventi sportivi”, aggiunge Sylvia Gichia di Kuona Trust, “mentre l’arte non ha la stessa forza dello sport, e quindi non esistono piani di investimento in questo settore. Questo è uno dei problemi per cui il Kenya arriva in seconda battuta rispetto a Nigeria e Sud Africa, quando si parla di arte contemporanea”.
Anche Sane Wadu – uno dei padri dell’arte contemporanea in Kenya, che oggi vive a Naivasha, una cittadina a circa due ore di macchina da Nairobi, dove ha un centro dedicato all’educazione artistica dei ragazzi di strada – lamenta la mancanza totale di supporto da parte del governo. “Il nostro sogno è di avere qui un centro multidisciplinare che possa educare i ragazzi in diverse discipline: la musica, l’arte, il disegno, la scultura. Ma mancano i fondi, manca la passione delle istituzioni a portare avanti questi progetti”. Sane Wadu vive con la moglie, anche lei artista. Durante una lunga chiacchierata ci raccontano che “oggi a Nairobi ci sono sì alcuni player importanti nel mondo dell’arte, ma c’è ancora tanto da fare. Negli Anni Sessanta la Galleria Watatu fu la prima a esporre sia artisti internazionali che locali, e a sostenere il lavoro degli artisti keniani sulla scena internazionale. Le gallerie oggi sono solo interessate al business”.
BUSINESS E IDENTITÀ
Certo è che, con lo sviluppo del business, per molti di questi artisti è arrivata anche la ribalta internazionale, e l’opportunità di farsi conoscere producendo lavori sempre più sperimentali, con opere vendute anche per qualche milione di dollari e mostre in Sud Africa e in Europa.
Tra i talenti di punta della Circle Art Gallery c’è sicuramente l’artista autodidatta Jackie Karuti, che ha esposto all’ultima 1:54 Contemporary African Art Fair a Londra e che è stata anche lei in residenza alla Kuona Trust. “Jackie ha un approccio concettuale e sperimentale, diverso dalla maggior parte degli artisti in Kenya”, aggiunge Kui Wachira, manager della galleria. “Esplora temi come la morte, l’identità e la cultura urbana, utilizzando installazioni, video e performance teatrali”. E comincia a essere una delle giovani artiste più considerate dai curatori internazionali, un nome di cui sentiremo presto parlare. “Per me il successo non si misura dal numero di mostre fatte e dalle opere vendute”, ha dichiarato recentemente l’artista in un’intervista, “ma vuol dire soprattutto evolvere, imparare attraverso il mio lavoro, condividere e confrontarmi”.
È evidente che la percezione dell’arte in Kenya, come in tanti altri Paesi africani, sta cambiando, e gli artisti così come le istituzioni private, le gallerie, i centri culturali, i collettivi sono ormai consapevoli del suo ruolo e della sua forza in ambito sociale ed economico. Quando parliamo d’arte africana, non possiamo più pensare a qualcosa di esotico o di stereotipato, bensì a un nuovo membro della grande famiglia dell’arte globale.
– Lisa Chiari e Roberto Ruta
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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